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Storia delle case sarde: La Campidanese
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<blockquote data-quote="Manlio" data-source="post: 18869" data-attributes="member: 1997"><p><strong>Storia delle case tradizionali a Santa Giusta</strong></p><p>Le tipologie della cosiddetta "architettura minore" delle varie zone agro-urbane in</p><p>cui storicamente è stata sempre suddivisa la Sardegna sono fortemente</p><p>caratterizzate dalle seguenti componenti: - "modo di vivere" dei fruitori degli</p><p>edifici; - ceto sociale dei fruitori degli edifici; - costo e reperibilità in sito dei</p><p>materiali costituenti lo stabile. Tenendo conto di ciò si può ben capire come detta</p><p>architettura, ed in particolar modo la casa rurale, abbia conservato intatti sino alla</p><p>fine della seconda guerra mondiale quei caratteri personalizzanti ed originali che</p><p>sono propri dei centri storici dei nuclei abitati ad economia prevalentemente</p><p>rurale esistenti nella nostra isola. E' ovvio che in un'economia povera come quella</p><p>della Sardegna rurale, i materiali da costruzione di una casa d'abitazione</p><p>dovessero essere reperiti possibilmente in sito o comunque in zona; ciò allo scopo</p><p>di ridurre al minimo l'incidenza del loro costo di trasporto sul costo di costruzione di</p><p>tutta la casa.</p><p>A questo proposito giova ricordare che il lavoro di costruzione di una casa rurale</p><p>veniva eseguito in economia dal proprietario e spesso durava anche alcuni anni.</p><p>Quanto detto non è valido per la cosiddetta "architettura superiore" (chiese di</p><p>primaria importanza, abitazioni nobiliari, luoghi in cui si amministrava la giustizia,</p><p>ecc.); infatti per realizzare queste opere considerate "di un certo livello" si riteneva</p><p>giustificato l'onere economico dell'acquisto e del trasporto in sito di materiale da</p><p>costruzione ritenuto pregiato (per maggior resistenza ai carichi ed agli agenti</p><p>atmosferici e per motivi estetici) ed il conseguente asservimento a determinati stili</p><p>architettonici di importazione.</p><p><strong>Il recupero e riuso dei centri storici è un tema attualmente molto sentito</strong>. e</p><p>dibattuto. Dove viene realizzato consente non solo una valorizzazione del</p><p>patrimonio artistico-culturale della comunità, ma anche un notevole</p><p>risparmio economico allo erario pubblico in un momento in cui la carenza</p><p>d’alloggi è notevole in tutta la nazione.</p><p>Le case in “ladiri” del Campidano rappresentano una tipologia tra le più</p><p>caratteristiche e tipizzanti del patrimonio culturale sardo. Al momento,</p><p>attuale, a causa dell’inefficienza della legislazione urbanistica vigente e della</p><p>carenza delle leggi che tutela no le bellezze ambientali, esse sono destinate</p><p>a scomparire.</p><p>Poichè credo vivamente nella salvaguardia e nel riuso di qualunque centro</p><p>storico e particolarmente, in quanto improcrastinabile, in quella del recupero</p><p>dei centri urbani con edilizia in “ladiri”; ho ritenuto opportuno realizzare</p><p>questo studio tenendo rigorosamente conto di quanto già scritto in proposito</p><p>da studiosi autorevoli, ma in particolar modo facendo sopralluoghi in sito,</p><p>fotografando, rilevando e intervistando la gente che in queste case è vissuta</p><p>o addirittura vive ancora.</p><p>Nel descrivere l’architettura del territorio, anziché seguire il filo cronologico</p><p>dell’evoluzione storica, si è scelto di partire dalla configurazione moderna e</p><p>contemporanea dell’insediamento, usando ciò che abbiamo sotto gli occhi</p><p>come palinsesto, sul quale cerchiamo di leggere le tracce e le ragioni delle</p><p>trasformazioni e delle vicende che vi si sono stratificate nel tempo. In questo senso,</p><p>il « grado zero» non sarà proprio l’oggi, ma un qualche momento di 150 anni fa</p><p>all’incirca, quando la Sardegna viene percorsa in lungo e in largo (e per la prima</p><p>volta nella sua storia post-romana) non solo dai pastori, dai commercianti o dalle</p><p>truppe, ma da viaggiatori, cartografi, studiosi, operatori tecnici delle sezioni di</p><p>strade e ponti del Genio.</p><p>Ogni ragionamento organico e strutturato che parta dalla forma del territorio e</p><p>dalla sua costruzione antropica, dalla valutazione puntuale della sua consistenza</p><p>fisica, dei rapporti dimensionali tra l’edificazione e l’agro, tra insediamento e</p><p>pertinenze territoriali, non può che prendere le mosse dai primi decenni</p><p>dell’Ottocento. questo infatti il momento nel quale, rispetto alle faticose (benché</p><p>spesso sorprendentemente ricche) opportunità di ricostruzione degli eventi e di</p><p>scandaglio sui dati offerti dagli archivi più disparati, siamo messi in un brevissimo</p><p>volger d’anni di fronte ad elaborazioni mature, a ricerche sistematiche e divulgate</p><p>mediante pubblicazioni a larga circolazione ed a materiali statistici e cartografici</p><p>con carattere di completezza, confrontabilità, rigore. Questi frutti (un po’ tardi, ma</p><p>di buon livello) della cultura illuministica ed enciclopedistica sono tutti in varia</p><p>misura orientati dall’esigenza di « fare il punto » sullo stato del territorio per</p><p>formalizzare i rapporti giurisdizionali e di proprietà, in vista della ridefinizione</p><p>generale delle relazioni stato-comunità-individuo-terra . Nell’economia di un</p><p>discorso sulla struttura dell’insediamento selezioneremo questi materiali a partire</p><p>dall’immagine cartografica.</p><p>In questo senso la rappresentazione dell’architettura del territorio ci appare,</p><p>insieme, un’astrazione tecnica ed una sintesi concettuale straordinariamente</p><p>efficace ed espressiva. Le finalità topografico-catastali del loro lavoro di</p><p>cartografi, l’esigenza di fondare la rappresentabilità del territorio, di fornire la</p><p>maglia di riferimento a larga scala, nella quale inserire i sistemi di individuazione a</p><p>maglia stretta (soprattutto la fitta rete dei segni della proprietà), producono</p><p>un’immagine destinata a durare come raffigurazione emblematica.</p><p>Sulla carta si disegna la trama essenziale dei centri e delle loro relazioni (la rete dei</p><p>percorsi, a quello stadio fortemente equipotenziale e pochissimo gerarchizzata),</p><p>una selezionata individuazione dei corsi d’acqua, qualche elemento del rilievo</p><p>(più annotazioni che impianto sistematico).</p><p>Le convenzioni grafiche adottate (in particolare la rappresentazione dei centri</p><p>come sistema di isolati circoscritti dai percorsi ed appena evidenziati con</p><p>l’ombreggiatura) ci restituiscono la « silenziosità » di quell’architettura,</p><p>l’opposizione fondamentale fra un nucleo compatto, luogo esclusivo dell’abitare,</p><p>ed un territorio sostanzialmente vuoto di segni del costruito, luogo del lavoro che</p><p>non lascia impronte forti, immediatamente registrabili dal cartografo.</p><p>Ci raccontano ancora la trama larga dell’antropizzazione, il controllo capillare ma</p><p>precario che l’insediamento prevalentemente accentrato (o, più raramente,</p><p>disperso) esercita sul territorio, nuclei piccoli (più o meno, s’intende) a presidio di</p><p>grandi estensioni.</p><p>Infine, assieme a queste costanti, documentano alcune variabili: può trattarsi di un</p><p>sistema di partizioni comunali più fitte (come l’addensarsi di centri con territori di</p><p>pertinenza relativamente piccoli ) o, a scala dal singolo comune, di preesistenze</p><p>rilevate (le molte chiese in campagna, i pochi casali, i nuraghi). Sono le eccezioni</p><p>alle regole dell’insediamento che segnalano anomalie storiche, persistenze di</p><p>habitat per lo più scomparsi, di rapporti più capillari o diversamente strutturati tra</p><p>le comunità e la risorsa- suolo, tra abitazione e territorio.</p><p>Da queste differenze possiamo risalire (come se utilizzassimo dei fossili-guida) al</p><p>tempo che precede il nostro « grado zero », al tempo lungo se non immobile della</p><p>vicenda rurale sarda. Dare spessore temporale e senso storico agli oggetti edilizi</p><p>dei villaggi ed ai molti segni presenti sul territorio significa indagare le relazioni tra</p><p>la conservatività della struttura agraria e pastorale , il filo dell’inerzia che si dipana</p><p>attorno alla costante della « povertà mediterranea » da un lato, e, dall’altro, la</p><p>rottura trecentesca, quella sorta di catastrofe originaria, nella quale il movimento</p><p>accelerato sul piano istituzionale e diplomatico-militare si coniuga con le vicende</p><p>profonde della società e dell’economia per cambiare radicalmente l’assetto e la</p><p>forma fisica dell’habitat.</p><p>Il viaggiatore contemporaneo che percorre la Sardegna non può non leggere</p><p>ancora i paesaggi regionali nella chiave della bassa densità di presenza umana e</p><p>dell’uso estensivo della risorsa-territorio da parte della comunità insediata. E le</p><p>stesse vicende dell’occupazione edilizia delle coste, tanto più eclatante perché</p><p>svolta sullo sfondo da grandi solitudini secolari, si sono realizzate in modo così</p><p>totalizzante ed eversivo proprio in quanto non supportate o contrastate da una</p><p>significativa costruzione locale del territorio. Cosicché oggi si può ancora</p><p>ammirare uno spettacolo insolito, presumibilmente transitorio: la compresenza di</p><p>paesaggi contemporanei e arcaici, del consumo intensivo e della presenza labile,</p><p>talvolta indistinguibile, dell’insediamento.</p><p>Sulle tracce di questa precarietà, che se ben analizzata si rivela per nulla univoca,</p><p>ricca di improvvisi addensamenti e rarefazioni, è possibile recuperare una gamma</p><p>inesauribile di oggetti, dal più ingombrante al più discreto, che consentono di</p><p>ricostruire in qualche caso il reticolo complessivo degli usi di alcune porzioni di</p><p>territorio.</p><p>La consistenza fisica documentabile di paesaggi che analizziamo ha, come già</p><p>visto, un riferimento di sfondo (la Sardegna medioevale e moderna) ed un « grado</p><p>zero » . Appunto 150 anni fa si ponevano le premesse per quel sistema di</p><p>trasformazioni e persistenze che ci fa leggere il territorio come insieme</p><p>contraddittorio ma integrato. Il padroneggiamento incompiuto dei luoghi che</p><p>caratterizza la vicenda dell’insediamento in Sardegna doveva sembrare cosa</p><p>chiarissima a chi ne percorreva allora strade e sentieri. Talvolta sono i percorsi a</p><p>circoscrivere il paesaggio agrario, laddove la monocoltura cerealicola domina</p><p>col suo sistema di campi aperti nella terra dove più consolidato e forte è il</p><p>controllo sociale ed individuale del territorio, la rivoluzione istituzionale della</p><p>proprietà non ha sostanzialmente variato il paesaggio storico dell’openfield. Non</p><p>meno decisiva è la persistenza o la bonifica della palude, che doveva costituire</p><p>ancora cento anni fa una costante assoluta del territorio regionale ed anche uno</p><p>degli aspetti più degradati del suo difficile regime idrico. Al polo opposto si colloca</p><p>invece l’uso produttivo dell’acqua come fonte di energia per le prime e quasi</p><p>uniche macchine dell’archeologia industriale popolare. Molini e gualchiere (e</p><p>frantoi) sono diffusi un po’ dappertutto e specialmente concentrati laddove si</p><p>realizzano particolari condizioni geografiche, di accessibilità, e anche di</p><p>imprenditorialità dei gruppi locali.</p><p>Abbiamo già riconosciuto il carattere precario ed arcaico della rete registrata</p><p>puntualmente verso la metà dell’Ottocento dalle nostre fonti. Un sistema esile di</p><p>strade vicinali unisce fra loro i centri, disegnando una maglia sostanzialmente</p><p>equipotenziale e scarsamente gerarchizzata. La « Strada Reale » e poi le</p><p>provinciali costituiscono, nella cartografia il solo segno esplicitamente artificiale, in</p><p>quanto dotato di un tracciato controllato geometricamente. Rispetto al</p><p>serpeggiare di tutti gli altri percorsi (segnale dell’aderenza forzosa alla topografia</p><p>locale), gli interventi statali costituiscono dunque il prodotto di un progetto di</p><p>trasformazione esterna, capace di imporsi con la sua tecnologia alla naturalità dei</p><p>luoghi.</p><p>Intorno alla metà del secolo scorso, avviata o completata una prima parte della</p><p>infrastrutturazione viaria a grande scala, l’intervento si sposta sulla risoluzione di</p><p>una lunga serie di problemi locali.</p><p>Il supporto morfologico del sistema viabile si può riassumere in questi elementi:</p><p>crinali generalmente percorribili e spesso anzi carreggiabili; coste scoscese talvolta</p><p>neanche percorribili a cavallo, valli di montagna che rappresentano vere e</p><p>proprie barriere morfologiche prima ancora che idrografiche , pianure alluvionali</p><p>percorribili e carreggiabili solo nella stagione asciutta, con alcune difficoltà nel</p><p>guado dei fiumi più grossi, pressoché impraticabili invece nel periodo delle</p><p>piogge, delle piene e degli impaludamenti. Queste strade, secondo tutte le</p><p>descrizioni dell’epoca, si percorrono in molti casi con difficoltà enormi.</p><p>Le vie di pianura cedono sotto il peso dei carri, che restano « incagliati in gorghi</p><p>fangosi » e i cavalli e i buoi « devono consumare le loro forze per uscire da’</p><p>pantani. E il ponte rappresenta l’eccezione persistenza logorata di tempi mitici e</p><p>sconosciuti o prodotto di trasformazioni recenti e non consolidate che la prima</p><p>piena può rimettere in discussione. I ponti « che ancora sussistono sono pochissimi »</p><p>e qualcuno di essi « minaccia di rovinare ».</p><p>La costruzione di un ponte, affidata agli sforzi dei singoli comuni, è operazione</p><p>epica dagli esiti incerti. La precoce rovina di queste strutture di non alto livello</p><p>tecnologico è piuttosto frequente, e la loro localizzazione è rigorosamente</p><p>determinata da regole e vincoli analoghi a quelli che determinano la posizione</p><p>dei guadi naturali.</p><p>Sopra quel resto dell’antica costruzione si suole distendere alcune travi per il</p><p>passaggio a’ pedoni; ma accade soventi che le acque crescendo le rapiscano</p><p>nella corrente, e restino intrapresi i viandanti.</p><p>In questo riuso degradato e rabberciato delle strutture smesse di altre epoche,</p><p>nell’inerzia pressoché generale con cui si assiste al disfacimento fisico ineluttabile</p><p>delle opere d’arte, in un fortissimo quadro di persistenze raramente evolutive (e</p><p>più spesso riscontrabili al livello del grado che sopravvive al ponte, del sentiero</p><p>che sopravvive alla strada, del segno che sopravvive al manufatto), nella</p><p>memoria mitica della strada romana e del ponte giudicale si legge il senso della</p><p>stagnazione plurisecolare che, se non è da assumere come visione semplificata</p><p>delle vicende storiche del sistema viario, la dice però lunga sulle condizioni in cui</p><p>versava tale sistema al giro di boa rappresentato dall’abolizione del feudalesimo.</p><p>Le istituzioni sovraordinate alla comunità per secoli paiono intervenire come puri</p><p>estrattori di risorse; dall’Ottocento in poi diventa tangibile anche qualche</p><p>contropartita in termini di trasformazione attiva del territorio.</p><p>Nel primo periodo post-unitario la costruzione o la regolarizzazione di un certo</p><p>numero di strade intercomunali e provinciali introduce, oltreché un disegno di</p><p>razionalizzazione dei collegamenti, nuove gerarchie .</p><p>Architettura tradizionale e stratificazione sociale nelle campagne</p><p>In tutta la Sardegna, e specialmente nelle zone cerealicole del Centro-Sud,</p><p>ancora fino a qualche decennio fa, e in parte anche oggi, vigeva un sistema</p><p>complesso di utilizzazione comunitaria del territorio, che obbligava a regolare</p><p>collettivamente i luoghi, i modi e le fasi del lavoro agricolo e pastorale, fosse o</p><p>meno prevalente l’una o l’altra delle due attività. Pastorizia e cerealicoltura</p><p>sono del resto sempre più o meno armonicamente associate e coordinate</p><p>nell’occupazione dello spazio conosciuto, posseduto e utilizzato in forme varie.</p><p>L’organizzazione comunitaria per l’uso dello spazio coltivato e abitato appare</p><p>funzionale all’uso doppiamente complementare del territorio complessivo sia</p><p>come luogo della coltivazione e del pascolo, sia come luogo abitato dagli</p><p>uomini e dagli animali domestici e da lavoro.</p><p>In Sardegna su sartu si distingue dal « proprio » centro abitato: ogni centro abitato</p><p>ha il suo « sartu », e ogni sartu è pertinenza di un centro abitato. La distinzionecontrapposizione</p><p>più sentita è infatti quella tra luogo abitato (bidda) e il suo</p><p>esterno (sartu, o foras de bidda). Il contadino e il pastore abitano nel paese (in</p><p>bidda), ma lavorano quasi soltanto in campagna (in su sartu). Sartu e bidda sono</p><p>nettamente distinti. Una distinzione ovvia e quasi universalmente umana, ma qui è</p><p>molto forte, benché le opere domestiche di tipo agricolo (specialmente la cura</p><p>degli animali da lavoro) non siano trascurabili. Infatti, come si vedrà subito, la casa</p><p>del contadino sardo è sempre, almeno come aspirazione, anche fattoria, luogo</p><p>delle attività contadine non campestri. Però è una casa di paese, mai di</p><p>campagna. E insomma una casa-fattoria. E tale è in certa misura anche quella</p><p>del pastore nelle zone dove la pastorizia è complementare alla cerealicoltura,</p><p>dove anche l’ovile è spesso parte della casa-fattoria di paese.</p><p>Non si sottolinea mai abbastanza che in Sardegna gli abitati non sono (se non,</p><p>raramente per partizioni amministrative decise altrove) entità associate o</p><p>dipendenti da altre, come il Dorf o lo hameau centro europeo. Si tratta invece di</p><p>entità potenzialmente autosufficienti come possibilità e organizzazione produttiva</p><p>e abitativa e di solito autosufficienti anche come organizzazione sociale, giuridicopolitica</p><p>(comune) e religiosa (parrocchia). Il coordinamento comunitario e forzoso</p><p>si deve in particolare al fatto che l’agricoltura e l’allevamento si conducono nello</p><p>stesso spazio coltivato e utilizzato di solito ad anni alterni come pascolo e come</p><p>campo. E il sistema di vidazzone e paberile , cioè un sistema di rotazione biennale</p><p>dei campi aperti che, grosso modo, bipartisce il territorio utilizzato in due grandi</p><p>zone: una per la coltivazione a grano (vidazzone), e una per il pascolo (paberile),</p><p>con alternanza annua. Il sistema funzionava meglio, e in tutta la Sardegna, in</p><p>tempi in cui vigeva ancora più o meno importante ed esteso il possesso</p><p>comunitario dei campi aperti: cioè fino alla legislazione anticomunistica sabauda</p><p>della prima metà dell’Ottocento, che si proponeva la creazione della « proprietà</p><p>perfetta » della terra. Il sistema tuttavia, e tutto un complesso di usi correlati, si è</p><p>conservato fino a oggi in vaste zone del centro-sud dell’isola. La comunità</p><p>provvedeva a regolare l’uso dei campi aperti (e in parte anche dei pascoli</p><p>permanenti) come luogo di pastura e come luogo della coltivazione. Oltre che</p><p>con la rotazione biennale forzata, ciò si otteneva anche tramite una specie di</p><p>contratto collettivo detto comunella, che regolava l’utilizzazione dello spazio</p><p>agropastorale come pascolo quando non era utilizzato per le colture. Se a ciò si</p><p>aggiunge un corpo di polizia rurale (barracellau), remunerata di proprietari in</p><p>ragione della quantità dei beni da custodire; l’esistenza di spazi comuni per il</p><p>pascolo del bestiame da lavoro, di aie comuni e di chiusi comuni per il pascolo</p><p>degli asini posseduti e usati da singole famiglie per le mole domestiche per il</p><p>grano; le varie corvées (cumandatas) per la creazione e la manutenzione di</p><p>strade interne all’abitato e di penetrazione agraria; l’uso pubblico e regolato di</p><p>fontane e abbeveratoi, e altre organizzazioni più ristrette, si avrà un’idea delle</p><p>forme di regolamentazione collettiva nell’uso degli spazi interni ed esterni</p><p>all’abitato. I pascoli e i campi aperti di proprietà comune, prima delle riforme</p><p>anticomunistiche del secolo scorso, erano assegnati per sorteggio, anche se i diritti</p><p>d’uso, coi tempo, solevano anche ereditarsi, e benché la forma privata di</p><p>possesso fosse già molto diffusa, specialmente nelle zone più marcatamente</p><p>cerealicole, al momento delle riforme suddette.</p><p>Il quadro sarebbe troppo schematico se non si notasse una caratteristica</p><p>notevole, comune a tutta l’isola e a gran parte del Mediterraneo cerealicolo: la</p><p>dispersione e la polverizzazione fondiaria. Anche le proprietà familiari più grandi</p><p>risultano estremamente frazionate e disperse in tanti piccoli campi distanti più o</p><p>meno l’uno dall’altro, accomunati solo dalla rotazione obbligata biennale a</p><p>grano e a riposo-pascolo. La concentrazione degli abitati può considerarsi causa</p><p>e conseguenza di questa situazione fondiaria. Senza accorpamenti, niente</p><p>appoderamenti e case campestri sul fondo, e viceversa. In altri tempi, infatti, e ciò</p><p>è documentato per l’età romana e medievale prima della conquista iberica, le</p><p>cose andavano diversamente: in zone dove oggi esistono una decina di centri</p><p>abitati compatti, ne esistevano circa tre volte tanto.</p><p>Ma gli spazi coltivati e abitati, così come gli altri mezzi di produzione e i prodotti</p><p>delle varie attività, non erano distribuiti e posseduti in maniera paritaria,</p><p>specialmente quando il tipo di possesso era quello della proprietà privata. Ma</p><p>anche l’accesso alle terre comuni e al pascolo comune era ovviamente</p><p>subordinato al possesso di attrezzi e animali da lavoro e delle sementi, o al</p><p>possesso di animali da allevamento brado, oltre che alla possibilità psico-flsica</p><p>individuale di compiere il lavoro e all’appartenenza alla comunità territoriale.</p><p>Meres o prinzipales (padroni) e theraccos (servi) nel Nord, zappadori a Sassari, pro</p><p>prietarius mannus e serbidorir nel Centro-Sud, giornaderis nei Campidani, sono solo</p><p>le denominazioni più comuni dei tipi o ceti sociali locali più importanti in cui si</p><p>stratificava la popolazione rurale negli ultimi secoli. Stratificazione che si delinea</p><p>soprattutto in base alla proprietà dei principali mezzi di produzione agropastorale.</p><p>Ricco e povero qui sono « sempre » esistiti nella realtà sociale vissuta e nel modo</p><p>tradizionale di pensare il mondo, la società, comunque poi questa dicotomia tra</p><p>ricco e povero venga spiegata, valutata, giustificata, deprecata.</p><p>Bisogna certo osservare che anche qui il modello ideale e perciò l’aspirazione dei</p><p>ceti meno abbienti è la realizzazione di una famiglia-azienda, cioè di organismi a</p><p>base familiare che siano insieme unità di consumo e unità di produzione, oltre che</p><p>unità di riproduzione della vita umana individuale e unità di coabitazione. Ma la</p><p>realtà è « sempre » stata diversa: poche famiglie con mezzi di produzione (terra,</p><p>animali, attrezzi, spazi costruiti) in quantità superiore alla loro disponibilità di lavoro</p><p>familiare, da una parte, e dall’altra molte famiglie senza mezzi o con scarsissimi</p><p>mezzi di produzione oltre la forza lavoro dei singoli; e in mezzo una quantità non</p><p>trascurabile di contadini e pastori medi e piccoli che più o meno a stento</p><p>riuscivano a riprodursi come famiglie-aziende autonome. È chiaro che la prima</p><p>categoria dei possidenti (prinzipales, meres, proprietarius) e la categoria dei poco</p><p>o nullatenenti dipendevano l’una dall’altra in modo sbilanciato a favore dei primi:</p><p>i prinzipales o meres o pro prietarius sono i « padroni » di uno suolo di servi,</p><p>giornalieri, semioccupati, lavoratori più o meno precari e dipendenti. Sono</p><p>appunto i ricchi e i poveri su misura locale. Vedremo come le loro case fossero</p><p>segno inconfondibile di questa situazione stratificata in subalterni e dominanti e</p><p>come il modo d’abitare, anche qui, fosse e sia un modo tipicamente locale di</p><p>rapportarsi l’un l’altro e di misurarsi come figure sociali. Organizzazione</p><p>asimmetrica, dunque, in base al possesso sbilanciato delle condizioni della</p><p>produzione: cioè, principalmente, di terra, animali, attrezzature (compresa la</p><p>casa-fattoria), capacità di lavoro effettivo. Faremo solo l’esempio del rapporto tra</p><p>padroni e servi di campagna, che durava formalmente un anno solare, dall’inizio</p><p>dei lavori di campagna all’inizio di un nuovo ciclo, di una nuova annata. I servi</p><p>erano gerarchizzati in una scala che ne prestabiliva la carriera. Al vertice, un capo</p><p>dei servi di campagna (sotzu). In linea di principio la gerarchia si basava sulle</p><p>capacità operative dei servi, di solito fatte coincidere con la loro età. La carriera</p><p>incominciava verso i dieci anni, come addetti al pascolo e alla cura degli animali</p><p>da lavoro (boinargius). Con l’eccezione possibile del soizu, i serbidoris vivevano in</p><p>casa del padrone. E importante notarlo perché questa coabitazione ha a che</p><p>vedere con il tipo di casa-fattoria di cui si tratterà. E dà ragione immediata di che</p><p>cosa significhi che le famiglie-aziende dei maggiori proprietari (messaius mannus o</p><p>propri etarius mannus) esorbitavano per eccesso la realtà (spesso esagerata) e</p><p>l’aspirazione (altrettanto spesso non realizzata) dell’autosufficienza e</p><p>dell’autoconsumo familiare contadino.</p><p>Ancora fino agli anni Cinquanta di questo secolo il padrone forniva vitto e</p><p>alloggio come parte della remunerazione dei servi di campagna, mentre il resto</p><p>dei compenso era anch’esso soltanto in natura (cereali o bestiame). Il</p><p>pernottamento obbligatorio nella casa-fattoria del padrone, situata sempre</p><p>dentro l’abitato, è un uso che si è conservato fino alla scomparsa di questo tipo di</p><p>lavoro subordinato, nei primi lustri di questo dopoguerra. Il padrone forniva anche i</p><p>pasti che si consumavano in campagna. La sera i servi rientravano a casa dei</p><p>padrone, non più tardi delle otto-nove di sera anche nei giorni festivi. Qui per loro</p><p>esisteva un locale-dormitorio, dove i servi passavano la notte su stuoie di erbe</p><p>palustri, per essere pronti all’alba della nuova giornata di lavoro, che</p><p>naturalmente durava, sui campi, dall’alba al tramonto, ma che spesso si</p><p>prolungava in casa del padrone fino a notte inoltrata e incominciava prima</p><p>dell’alba, per esempio per dedicarsi alla cura degli animali da lavoro. Era</p><p>proverbiale dire che il padrone aveva maggiori riguardi per i suoi animali che per</p><p>chiunque dei suoi servi, che non aveva comprato in fiera. Soltanto il capo dei servi</p><p>(sotzu), specialmente se era sposato, di solito poteva passare qualche notte</p><p>feriale in casa sua.</p><p>E utile considerare che in queste zone i contadini ricchi sono di rado assenteisti,</p><p>ma vivono nel paese dove hanno le loro aziende e se ne occupano. Venendo</p><p>meno la conduzione diretta, la casa-fattoria di paese tende a venir meno, com’è</p><p>successo nel Nord cerealicolo, dove gli annessi agricoli e gli animali da lavoro e</p><p>da allevamento sono stati espulsi fuori dall’abitato, compatibilmente però con</p><p>un’agricoltura e una pastorizia meno florida e meno animata da una «</p><p>imprenditorialità » familiare diretta. Il rapporto di lavoro subordinato a contratto</p><p>annuale tipico del Centro-Sud permetteva a un « imprenditore » agricolo — e tali</p><p>erano i maggiori proprietari, nella misura in cui erano acquirenti di forza lavoro</p><p>remunerata a contratto e anticipatori di risorse per produrre beni almeno in parte</p><p>anche venduti o comunque scambiati — di servirsi dei loro dipendenti a pieno</p><p>tempo: di disporre cioè del tempo dei loro servi senza che questi potessero avere</p><p>più di qualche possibilità occasionale di intervenire in questo tipo di decisioni. Il</p><p>tutto era regolato da norme consuetudinarie che non prevedevano molta</p><p>tenerezza per i suoi dipendenti da parte della famiglia del padrone. E dunque</p><p>soprattutto la coabitazione che indica, spiega e permette quest’uso del tempo</p><p>dei subordinati in modo quasi totale. In questo modo infatti i serbidoris passavano</p><p>anche il tempo di non lavoro (riposo, pasti) nella casa padronale, in seno alla</p><p>quale costituivano una sezione subalterna dell’unità familiare di produzione e di</p><p>consumo, oltre che di residenza, gestita dal padrone. La padrona (di solito moglie)</p><p>gestiva direttamente l’altra sottosezione della servitù domestica, normalmente</p><p>solo femminile, a volte addetta anche a certi lavori agricoli riservati alle donne.</p><p>Erano però i servi di campagna (e le serve domestiche) che vivevano in casa del</p><p>padrone, non le loro famiglie. Le famiglie dei serbidoris costituivano unità di</p><p>residenza e di consumo (qualche volta anche di produzione più o meno precaria)</p><p>del tutto autonome: in case, appunto, che ben ne mostrano la condizione di</p><p>famiglie che non sono aziende.</p><p>I pescatori dipendenti, detti anch’essi serbidoris, delle peschiere degli stagni</p><p>costieri sardi erano di solito anch’essi organizzati in modo simile, compreso</p><p>l’obbligo di residenza e di pernottamento, per lo meno a turni, nelle « case » (sa</p><p>domus) di peschiera, come per esempio a Cabras e Santa Giusta (Oristano), fino</p><p>a pochi anni addietro. Con la differenza però che nel caso dei pescatori di stagni</p><p>costieri il padrone non viveva in peschiera, ma è ritenuto un tipico padrone</p><p>assenteista.</p><p>I contadini medi e piccoli, a volte perfino privi del tutto di terra — e perciò</p><p>dipendenti dai maggiori proprietari nella forma dell’affitto di un tipo locale di</p><p>mezzadria a tempi brevi —, realizzavano più o meno sufficientemente lo scopo di</p><p>far coincidere famiglia e azienda, unità di produzione</p><p>unità di consumo. Un contadino medio, e soprattutto un contadino piccolo, ha</p><p>bisogno di lavoro supplementare a quello di cui può disporre in famiglia quasi solo</p><p>nel momento emergente del raccolto. Ma essi pure usufruivano dei servizi collettivi</p><p>(polizia campestre, aie comuni, pascolo comune dei buoi da lavoro, ecc.). I</p><p>maggiori proprietari di terra, di strumenti e di bestiame da lavoro, e perciò anche</p><p>maggiori produttori agricoli, erano pure i proprietari più grandi di bestiame da</p><p>allevamento (soprattutto pecore). Invece le aziende dei contadini medio-piccoli</p><p>erano quasi sempre aziende monocolturali cerealicole, mentre per le aziende dei</p><p>maggiori proprietari cerealicoli, che spesso erano anche aziende allevatrici, la</p><p>componente agricola risulta quasi sempre predominante su quella pastorale. Una</p><p>menzione, infine (altrove si parla di artigiani) della categoria dei « signori », non</p><p>sempre ricchi, però diversi, anche come abitudini abitative, dal resto della</p><p>popolazione contadina, pastorale e artigiana, e un cenno anche al ceto dei</p><p>mercanti. i « signori » erano i pochi addetti ai servizi dell’amministrazione locale e</p><p>statale, della salute, dell’istruzione popolare e della religione cattolica ufficiale.</p><p>Situazione a sé era anche quella dei commercianti di vario tipo e calibro, con</p><p>esigenze e possibilità abitative di solito superiori a quelle medie locali. « Signori » e «</p><p>mercanti » erano agenti e intermediari locali di attività di tipo esterno: dello stato e</p><p>del mercato. Più o meno estranei agli usi locali, lo mostrano nelle loro case di tipo</p><p>anche cittadino: non case-fattorie, né tanto meno case « povere », ma imitazioni</p><p>più o meno ruralizzate del palazzotto di tipo cittadino.</p><p>Quello che andiamo descrivendo è dunque un mondo ancorato alla terra,</p><p>caratterizzato da « una base fortemente territorializzata » della società e dello</p><p>spazio insediativo che essa stessa si è costruita. Altrove una piazzaforte, un</p><p>mercato, un porto si localizzano in funzione di problemi di controllo a vasto raggio,</p><p>del territorio; si tratta di forme insediative che presuppongono una strategia</p><p>territoriale di ambito non locale, un progetto insomma che trascende le comunità</p><p>e si propone come strumento di razionalizzazione in qualche modo pianificata ed</p><p>esterna.</p><p>Stiamo dunque parlando di una costruzione tutta « interna », sia in senso</p><p>geografico, sia in senso antropologico:</p><p>autosufficienza, autoregolazione (ma, anche, autarchia e autoconsumo) sono</p><p>l’orizzonte di sfondo dello spazio regionale. Il che non presuppone affatto una</p><p>reale autonomia, perché su quello sfondo sta anche, non meno essenziale, il</p><p>dominio esterno alla comunità (sia esso baronale, statuale, militare). Dentro queste</p><p>coordinate si è disegnato, per secoli, il sistema dei villaggi sardi: ciascuno e tutti,</p><p>pur nella varietà delle di mensioni, forme e relazioni, ci appaiono profondamente</p><p>e quasi univocamente segnati dal radicamento locale, da un equilibrio</p><p>economico e morfologico-localizzativo strettamente aderente alla risorsa-territorio.</p><p>Il paese è un luogo « medio », un baricentro del suo spazio di pertinenza almeno in</p><p>tre sensi. La comunità, se appena può, anzitutto si installa e si consolida tra il</p><p>campo ed il monte: tutto ciò per garantirsi al massimo livello possibile una gamma</p><p>completa di opportunità di sussistenza. Così si tende a scegliere come luogo da</p><p>abitare un sito che renda equilibrati accessibilità e controllo sui luoghi del lavoro.</p><p>In secondo luogo, il paese è, per ogni contadino, il baricentro ideale della</p><p>proprietà dispersa, dei molti campi distanti fra loro che è forzato a coltivare (in</p><p>proprio o per conto d’altri) compiendo la quotidiana fatica dell’andata al campo</p><p>e del ritorno al villaggio. La terza centralità è per l’appunto quella dell’abitare: una</p><p>contrapposizione macroscopica, mai abbastanza sottolineata, tra il pieno del</p><p>paese, l’addossarsi densissimo delle case, dei muri, dei portali nel perimetro</p><p>dell’abitato e il grande vuoto del campo e dell’incolto, tra luogo dell’abitazione e</p><p>luogo del lavoro.</p><p>A guardare bene, le differenze e le specificità sono poi tante; non abbastanza</p><p>però da togliere significato al modello. Cento anni fa, le dimensioni dei villaggi</p><p>oscillavano dai 121 abitanti di Baradili (il più piccolo), ai 6.638 di Quartu (il</p><p>maggiore). Eppure, il centro-tipo è senz’altro un paese tra i 1.000 e i 2.000 abitanti,</p><p>con un territorio comunale ampio, ben distanziato dai centri vicini non meno</p><p>accorpati e compatti, isolati e autosufficienti se non ostili fra loro, comunque non</p><p>facilmente solidali. Questa identità prevalente, ben esemplificata dal villaggio di</p><p>pianura e dal medio borgo pastorale, abbiamo già visto come non sia né «</p><p>originaria » né metastorica, ma piuttosto frutto di un complesso insieme di eventi, e</p><p>di violente ristrutturazioni.</p><p>Questo sconvolgimento, naturalmente, non ha agito omogeneamente, ed anzi ci</p><p>ha consegnato un territorio segnato da profonde differenze interne. Qua e là, veri</p><p>e propri sistemi insediativi interconnessi organizzano il proprio spazio agrario in</p><p>forme capillari, più conservative e arcaiche.</p><p>Si può considerare anzitutto il caso di quei villaggi (non pochissimi) che sono</p><p>esplicitamente il prodotto dell’aggregazione di nuclei distinti. Questo</p><p>addensamento di entità distinte, dotate di propria fisionomia indipendente,</p><p>almeno finché le rileva il cartografo ottocentesco (ed anche successivamente)</p><p>rinvia al modello medievale della scolca , una sorta di associazione solidaristica (e</p><p>presumibilmente di difesa e assicurazione reciproca) che poteva coinvolgere</p><p>anche i membri di comunità differenti realizzandosi concretamente nella</p><p>vicinanza insediativa nella gestione di un territorio comune. Ma non sono solo</p><p>questi casi-limite a contraddire il modello dominante.</p><p>Lo stereotipo del villaggio bloccato e monolitico si risolve spesso in una diversa</p><p>immagine, quella di un’unità che si realizza per parti; anzi è proprio dalla dialettica</p><p>delle parti « I vicinati »che si può ricomporre nel centro la identità e la complessità</p><p>insediativa perduta sul territorio. Di frequente si consolidano, in angoli</p><p>particolarissimi dentro i saltus spopolati, costellazioni di centri unificati dalla loro</p><p>prossimità reciproca che li rende eccentrici rispetto a territori talvolta vastissimi.</p><p>A ritroso, la « storia immobile » del villaggio è percorsa da considerevoli sussulti, di cui</p><p>l’insediamento porta tracce evidenti. Il numero stragrande di chiese campestri</p><p>disseminate in ogni angolo della regione non è il frutto di un movimento centrifugo</p><p>di appropriazione rituale dello spazio agrario che si irradia dal villaggio ma, al</p><p>contrario, il prodotto di un processo inverso, centripeto, di abbandono e</p><p>concentrazione. La chiesa campestre si segnala spesso come un fossile, il sito di un</p><p>centro scomparso, i cui abitanti hanno infine trasmigrato verso un villaggio più o</p><p>meno vicino, portandosi appresso il proprio territorio e la continuità rituale di</p><p>frequentazione della chiesa corrispondente (la sagra campestre) come pegno di</p><p>possesso. Ma anche a scala assai più vasta si creano interdipendenze e sistemi: e</p><p>ciò nelle condizioni più disparate.</p><p>Frutto dell’assetto « cantonale » del territorio, hanno costituito da sempre (e</p><p>tendono a conservare anche oggi) unità di comunicazione interna, relativamente</p><p>isolate, o comunque fisicamente e funzionalmente ben individuate, rispetto alle</p><p>aree vicine. I casi considerati , tuttavia (piccoli grappoli di centri con un’economia</p><p>mista agro-pastorale) sono tutto sommato fenomeni di margine, pur se molto</p><p>significativi, nel tessuto insediativo regionale. Diverso è il peso di alcune aree</p><p>fortemente specializzate, in particolare in senso cerealicolo. Centri piccoli,</p><p>compatti e numerosissimi, che cento anni fa contavano ancora un centinaio di</p><p>famiglie ciascuno, in media, controllano capillarmente territori di dimensione</p><p>inferiore ai 1.000 ha, di gran lunga la minima superficie rintracciabile nei vasti spazi</p><p>regionali. I confini amministrativi di questi centri disegnano un reticolo</p><p>perfettamente riconoscibile in quanto ormai unico nella griglia dei territori</p><p>comunali della regione: l’eccezione della maglia stretta dentro la regola delle</p><p>maglie larghissime dell’habitat accentrato. Qua la comunità locale, anche nel</p><p>generale processo di ripiegamento e concentrazione di 5 o 6 secoli fa, ha</p><p>conservato questa forma di presenza diffusa, che perpetua la stretta economia</p><p>del rapporto col suolo proprio del villaggio accorpato (nessuna casa nel campo),</p><p>ma la ripartisce su perimetri relativamente corti, su orizzonti di comunicazione</p><p>molto prossimi. La base di questo rapporto originario con la terra è la disponibilità</p><p>delle colline a nord-est del Campidano ad accogliere la migliore cerealicoltura</p><p>dell’isola senza richiedere quegli investimenti in bonifica, drenaggio, controllo del</p><p>regime delle acque che le comunità locali per molti secoli non sono più in grado</p><p>di esprimere autonomamente. Quando questo delicatissimo equilibrio della</p><p>scarsità è rotto (e ciò accade quasi dovunque), si produce il grande villaggio, con</p><p>una pertinenza territoriale di decine di migliaia di ettari, autosufficiente per</p><p>necessità dettate dall’isolamento, privo spesso persino di contatto visivo con altri</p><p>villaggi. In pianura, la scansione dei centri (oltre che sulla misura del territorio</p><p>produttivo) è organizzata in se-quenza sulle principali vie di comunicazione.</p><p>Altrove prevale la problematica del controllo dei grandi saltus, gli spazi delle</p><p>pratiche pastorali e « naturali » cui era legato molto della sussistenza fisica di intere</p><p>comunità. Dal conflitto su questi territori è segnata, come si vedrà di seguito, la</p><p>vicenda di non pochi dei nostri centri.</p><p>Il villaggio e le sue parti.</p><p>Il villaggio, visto per così dire « da lontano », esprime soprattutto omogeneità e</p><p>compattezza, opposizione radicale e univoca allo spazio agrario e naturale. « Da</p><p>vicino » invece, se ne vedono articolazione e differenze. Non sempre,</p><p>naturalmente, è possibile riconoscere un vero e proprio processo di aggregazione</p><p>dall’esterno, né disponiamo di fonti sicure su gran parte dei movimenti adombrati</p><p>nei miti di fondazione e rifondazione. Tuttavia, dove la cartografia e la</p><p>toponomastica catastale ottocentesca si presentano sufficientemente articolate</p><p>e precise con l’ausilio della tradizione fondativa, si può arrivare a dar conto di un</p><p>sistema documentato e riconoscibile.</p><p>Fontane e pozzi pubblici da un lato e chiese dall’altro formano dunque i poli di</p><p>aggregazione dei diversi settori del paese.</p><p>Praticamente, nelle cartografie ottocentesche, ad ogni vicinato corrisponde una</p><p>fontana e, con eccezioni solo marginali, una chiesa; inoltre, ciascuna di queste è</p><p>collocata in posizione centrale o comunque dominante solo rispetto al suo</p><p>vicinato.Il caso esaminato costituisce indubbiamente un episodio- limite, anche se</p><p>esemplare in quanto condensa in s gran parte degli elementi di riconoscibilità</p><p>delle parti urbane, che altrove si presentano in forme più incerte e parziali.</p><p>2. La cultura della divisione</p><p>Dentro lo spazio abitato il ricco e il povero, il proprietario ed il biacciante si</p><p>ritagliano i loro ambiti, si muovono, costruiscono e trasformano le abitazioni,</p><p>spostano faticosamente e per quantità minime (eppure significative, talvolta</p><p>decisive) le frontiere tra pubblico e privato, tra edificato ed agro. La piramide</p><p>sociale è tutt’altro che appiattita, se è vero che cent’anni fa un tipico borgo</p><p>cerealicolo (per il quale la dimensione della proprietà fornisce una misura</p><p>sufficientemente attendibile delle gerarchie di reddito) contava 16 grandi</p><p>proprietari su 500 nuclei familiari . Dunque, si può ragionevolmente ritenere che il</p><p>villaggio, nella sua forma attuale accentrata, sia proprio il luogo dove si svolge</p><p>concretamente il rapporto di conflitto e di integrazione fra i pochi prinzipales ed i</p><p>moltissimi nullatenenti, variamente mediato da una gerarchia sociale intermedia</p><p>ricca di sfumature. Infatti i molti proprietari medi e piccoli, cui non è in teoria del</p><p>tutto precluso l’accesso alla fascia superiore, sono però anche soggetti il cui</p><p>patrimonio è continuamente esposto ai rischi più disparati.</p><p>Anche se l’incerta tradizione orale non consente di definire una mappa degli</p><p>antichi vicinati o quartieri, in alcuni casi l’impronta lasciata dalle stratificazioni delle</p><p>classi sociali nell’insediamento è assolutamente ricostruibile.</p><p>L’ossessione dell’acqua</p><p><strong>Nel rapporto « al limite » con la natura e le risorse che caratterizza il villaggio,</strong></p><p><strong>l’acqua è una presenza ossessiva,</strong> un fattore permanente di necessità e di rischio.</p><p>Abbiamo visto come geografia e geologia si siano coalizzate a complicare il</p><p>problema: così, l’acqua inanca quando la si vorrebbe, ma quando arriva può</p><p>essere un flagello; è capace di ristagnare nei modi più indesiderabili nelle paludi, e</p><p>però anche di scomparire quando sarebbe più necessaria, facendosi inghiottire</p><p>dagli innumerevoli fenomeni carsici della regione.</p><p>In altri termini, è ancora possibile leggere e interpretare il territorio, la forma</p><p>dell’habitat e la dislocazione dei centri come il prodotto di un meccanismo</p><p>complesso nel quale la presènza e l’assenza della risorsa idrica, la vicinanza o la</p><p>lontananza dalle zone a più difficile drenaggio, la possibilità o l’impossibilità di</p><p>controllare il regime idrico hanno costituito altrettanti elementi decisivi per</p><p>orientare le scelte delle comunità locali in ordine all’insediamento.</p><p>Naturalmente, le diverse alternative hanno avuto influenze ed esiti differenti nel</p><p>corso dei tempo; ciò equivale a dire che l’acqua non può essere considerata</p><p>come una determinante puramente fisica, ma che invece è « determinante » il</p><p>modo con cui la comunità si rapporta al territorio, la sua tecnologia, la sua</p><p>organizzazione produttiva e socialeL’obiettiva difficoltà di captare e</p><p>irreggimentare l’acqua, unitamente allo scarso contenuto tecnologico della</p><p>cultura insediativa nel villaggio, ci fanno immaginare a quali stringenti e</p><p>drammatiche alternative fosse soggetta la scelta del sito. Allontanarsi dall’acqua</p><p>scontando scarsità terribili o avvicinarsi, rischiando periodicamente i suoi effetti</p><p>devastanti, o il continuo stillicidio del paludismo malarico: questa è stata per</p><p>secoli, in una sintesi estremizzata, la condizione del centro agricolo medio.</p><p>Il pozzo diventa dunque un vero fulcro del villaggio, anzitutto a partire</p><p>dall’organizzazione domestica di quelle abitazioni che possono permetterselo. Se</p><p>sta in una corte (e ciò accade quasi sempre), il pozzo è collocato in posizione</p><p>geometricamente e funzionalmente centrale. Nelle grandi case- fattoria può</p><p>assumere proporzioni imponenti, vero monumento all’acqua, di grande sezione e</p><p>di impianto murario impegnativo.</p><p>Nella gran parte dei casi, un manufatto relativamente modesto (anche se</p><p>costruito spesso con grandi lastre monolitiche in pietra, assai preziose e onerose</p><p>nei villaggi di pianura) è al centro di un sistema che prevede, tra l’altro, una serie</p><p>complessa di abbeveratoi per il bestiame (laccus e laccbittus in pietra) oltre ai</p><p>sistemi di irrigazione dell’orto.</p><p>Naturalmente, il pozzo entra come una delle risorse più essenziali e meno divisibili</p><p>nei processi di frazionamento ereditario: è del tutto comprensibile come lo sforzo</p><p>tecnologico ed economico corrispondente fosse tale da non consentire a</p><p>nessuno rinunce che non apparissero assolutamente obbligate. Col pozzo, la «</p><p>cultura della divisione » del villaggio agricolo si misura sino in fondo con i suoi</p><p>paradossi. Quando si divide una corte col pozzo, si può anzitutto cercare di</p><p>tenerlo per quanto possibile in comune: sono documentati al Vecchio Catasto</p><p>mappali indivisi in forma di imbuti o corridoi sul cui fondo sta il pozzo. Quando</p><p>questo non è geometricamente possibile (o conveniente, o desiderato) allora i</p><p>confini di proprietà passano proprio su quel punto, vero fulcro di linee di forza</p><p>materializzate dalla divisione. In questo caso, ci si trova di fronte frequentemente</p><p>ad un « pozzo tramezzato ». Abbiamo documentato situazioni nelle quali il muro di</p><p>divisione della proprietà si prolunga, sospeso sui vuoto del pozzo stesso, lasciando</p><p>appena uno stretto varco perché ognuno dei proprietari possa, dalla sua parte,</p><p>attingere l’acqua.</p><p>Questo pozzo, originariamente privato, possiamo anche ritrovarlo in fondo ad un</p><p>vicolo. Rotti i legami di consanguineità tra vicini che godono in comune</p><p>dell’acqua del pozzo (e questo può avvenire nei volgere di una generazione), il</p><p>mappale indiviso può finire per diventare collettivo e poi pubblico. Questo</p><p>passaggio illumina particolarmente i modi concreti attraverso i quali prende forma</p><p>ed evolve l’architettura popolare del villaggio. Il pozzo in fondo al vicolo è cosa</p><p>diversa dalla fontana del paese, anche se a volte è (significativamente) costruito</p><p>con maggiore cura. La fontana pubblica per lo più coincide con i luoghi centrali</p><p>del villaggio, e li segnala; è collocata di frequente su slarghi importanti che</p><p>costituiscono talvolta il fulcro, in altri casi il limite di quartieri e vicinati. Anzi,</p><p>talmente rilevante è il ruolo funzionale e simbolico, la valenza aggregante e</p><p>sociale di questi luoghi, che da essi prendono nome molti dei vicinati stessi.</p><p>L’acqua, dunque, aggrega e distingue le parti del villaggio. Questo ruolo lo</p><p>assume non solo quella, ben controllata, della fontana, ma anche il torrente, il rio</p><p>poco o nulla arginato..</p><p>Dal territorio, l’uso dell’energia idraulica si spinge fin dentro l’abitato, dove un</p><p>frantoio veniva azionato dal rio che attraversa il paese. In questo caso, però,</p><p>siamo di fronte ad una struttura urbana più organica, nella quale il rio non è</p><p>decisivo nel definire i settori.</p><p><strong>Edilizia rurale: case ricche e case povere.</strong></p><p>Qualificare un’abitazione o un tipo d’abitazione come povera o ricca è</p><p>operazione comune e immediata. Con l’alimentazione, l’abitazione, specialmente</p><p>nelle società tradizionali, si prende in gran conto per valutare un modo, un tenore</p><p>di vita in termini di ricchezza e di povertà, anche se sono svariate le conclusioni,</p><p>soprattutto a seconda che a giudicare sia un soggetto interno o esterno alla</p><p>cultura di cui il tipo d’abitazione è un elemento. Quest’aspetto ovvio della cultura</p><p>dell’abitare è spesso trascurato, anche in opere di antropologi, abituati per</p><p>mestiere a interessarsi della varietà dei modi di vivere e di pensare i propri o altrui</p><p>modi di vivere. Poco comune è anche l’idea, altrettanto ovvia, che la varietà dei</p><p>modi d’abitare, specie se giudicata nei termini così comuni di ricchezza e povertà,</p><p>è misurabile « in funzione » della stratificazione interna alla società studiata.</p><p>Non a caso s’è detto ricco e povero. Sono termini che nella cultura anche non</p><p>popolare si usano per qualificare efficacemente abitazioni e modi d’abitare, oltre</p><p>che generi di vita in generale. E se è vero che si tratta di un giudizio che unisce</p><p>nozioni diverse come quantità, bellezza, funzionalità, posizione, stile, rifiniture,</p><p>pertinenze, arredamento, eccetera, bisogna anche considerare che tutte queste</p><p>nozioni si applicano a case diverse a seconda del senso comune dominante</p><p>intorno alle caratteristiche positive e negative dell’abitare. Ma per quanto</p><p>generiche, le qualificazioni di ricca e povera per un’abitazione sono ancora le più</p><p>comprensive del valore che una società o uno strato sociale attribuiscono al</p><p>modo d’abitare proprio o altrui.</p><p>Per ragioni di competenza si tratta qui più particolarmente del Centro-Sud, con</p><p>profondità temporale che non supera la memoria delle generazioni viventi, cioè</p><p>con un massimo di circa un secolo e mezzo. Lo scopo è dunque di rendere conto</p><p>di come la casa sia anche conseguenza e segno di appartenenza a uno dei livelli</p><p>della stratificazione sociale interna:</p><p>sia obiettivamente, cioè per caratteristiche soprattutto strutturali e quantitative</p><p>della dimora osservabili direttamente; sia soggettivamente, cioè secondo il metro</p><p>di giudizio (sintetizzato principalmente nelle nozioni di ricchezza e povertà) che ne</p><p>danno i diretti interessati, dall’interno, secondo valori propri.</p><p>Come è facile immaginare, data la « normalità » della cosa, in generale, le case di</p><p>paese, rurali — cioè le case dei centri abitati compatti e le case delle piccole</p><p>zone di habitat disperso — si presentano come plurifunzionali, nel senso che a</p><p>locali da abitare uniscono locali usati come laboratori domestici,’ magazzini,</p><p>rimesse, stalle, tettoie, ovili, letamai, bassa corte, pagliai. Sono case per abitare e</p><p>case per fare lavori per il consumo domestico e per le attività’ agricole, con la</p><p>conseguenza che case di questo tipo debbano essere provviste di cortili più o</p><p>meno ampi, e in cui si trovino anche il pozzo e/o la cisterna, abbeveratoi per</p><p>animali di piccola e grossa taglia e altro ancora. Pur essendo case di paese, esse</p><p>sono concepite e adibite, oltre che per esigenze tradizionali della vita domestica,</p><p>anche per attività lavorative del campo e del gregge e alla conservazione dei</p><p>prodotti, paglia e legna comprese, e quindi anche dei sottoprodotti e dei residui</p><p>sempre puntigliosamente utilizzati in lavorazioni e usi successivi secondo una</p><p>sapienza riciclatrice di tradizione millenaria in regime di penuria, soprattutto</p><p>alimentare.</p><p>Consideriamo subito che è proprio il tipo di presenza delle parti non adibite</p><p>prevalentemente ad abitazione, cioè degli annessi rustici, che qualifica una casa</p><p>dal punto di vista della tipologia sociale dei suoi possessori e soprattutto dal punto</p><p>di vista della stratificazione sociale. Tale per lo meno è la situazione nelle zone</p><p>prevalentemente cerealicole del CentroSud.</p><p>Infatti la casa di paese del contadino che possiede almeno a sufficienza le</p><p>condizioni della produzione mostra questa sua qualità di proprietario più o meno</p><p>grosso dei mezzi e degli oggetti materiali della produzione agricola o agropastorale.</p><p>La casa del bracciante, praticamente nullatenente e quindi servo o</p><p>giornaliero, di solito è priva di annessi agricoli, e a volte anche di quei laboratori</p><p>domestici come forno e mola asinaria; la casa del contadino « normale », e tanto</p><p>più se ricco, ha stalle e cortili, ovili e magazzini che ne mostrano la consistenza di</p><p>proprietario, e sarà definito in parlata locale con termini come messaiu mannu</p><p>(contadino grande), messaieddu (contadino piccolo), grana’u pro prietariu</p><p>(grosso proprietario), meri (padrone) e altri.</p><p>Il cortile, per esempio, varia da un minimo zero, dato che non di rado può essere</p><p>assente nella casa del bracciante o del servo pastore, a un massimo d’estensione,</p><p>e di solito anche di numero (2, 3 cortili), nella casa dei maggiori pro-prietari di terra</p><p>e di bestiame. Si avrà infatti spesso, in quest’ultimo caso, il cortile rustico con le</p><p>stalle e gli altri annessi per l’alloggio dei servi e degli animali da lavoro; il cortile</p><p>con gli ovili e gli altri annessi pastorali (poiché ricordiamo che non era raro,</p><p>specialmente nel Sud cerealicolo, che il gregge avesse l’ovile nella casa di paese</p><p>del suo proprietario); il cortile padronale, luogo d’accesso, ordinato e imbellito da</p><p>alberi più o meno ornamentali e da fiori curati dalle donne di casa. Al cortile</p><p>padronale si accede di norma attraverso portali che da soli la dicono lunga sulla</p><p>posizione sociale del padrone di casaIl portale più o meno grande e solenne è</p><p>tipico del contadino medio-grande, non del, contadino piccolo e tanto meno del</p><p>contadino povero, del bracciante nullatenente. A ben guardare, infatti, è già il</p><p>portale o il tipo di accesso alla casa che è l’indice molto chiaro di chi lo usa. E la</p><p>cosa è sentita tanto ‘che i maggiori proprietari solevano apporre in bassorilievo</p><p>evidente le loro iniziali nel punto più alto dell’arco del portale; e certi artigiani</p><p>agiati vi aggiungevano le insegne della loro arte. Ma ad autorappresentarsi così,</p><p>con queste specie di blasoni esibiti nel punto più visibile della casa, sono solo i</p><p>proprietari grossi e gli artigiani e i mercanti più floridi, non certo i contadini piccoli e</p><p>i nullatenenti. Anche i mercanti, appena potevano, vivevano in complessi</p><p>domestici grandi del tipo di quelli dei proprietari grossi, benché non avessero</p><p>necessità di annessi rustici. La forza economica e il prestigio sociale dei maggiori</p><p>proprietari agricoli era evidentemente grande, se a volte mercanti e « signori »</p><p>tendevano a diventarlo anch’essi, investendo in terre e bestiame e quindi</p><p>adeguandosi ai loro modi d’abitare. Nella seconda metà del secolo scorso non</p><p>era difficile diventare massaiu mannu per chi avesse disponibilità anche limitata di</p><p>denaro liquido con cui acquistare terre all’asta per debiti col fisco.</p><p>Oppure si badi alla tendenza allo sviluppo in altezza, oltre che in estensione per</p><p>giustapposizione di locali. Le case dei braccianti erano di solito a un piano, quelle</p><p>dei contadini non poveri erano di norma a due piani, ambedue con funzioni</p><p>strettamente abitative: spesso il piano superiore, nelle case dei proprietari piccoli,</p><p>era adibito a deposito delle derrate per il consumo familiare. A partire dalla</p><p>seconda metà del secolo scorso le case d’abitazione dei maggiori proprietari</p><p>tendono ad assumere la forma del palazzotto di tipo cittadino, escono dal</p><p>quadrilatero del grande cortile padronale d’ingresso, e l’ingresso si fa immediato</p><p>dalla strada mentre rimangono ingressi distinti per i cortili rustici. Il complesso</p><p>restava però quello di una casa d’abitazione, magari di tipo urbano, con annessi</p><p>rustici importanti.</p><p>La casa tipica della pianura e della collina può dunque definirsi a ragione casafattoria,</p><p>legata direttamente alle esigenze dell’agricoltura e dell’allevamento</p><p>ovino brado. Essa ha però la peculiarità di trovarsi all’interno del paese, adiacente</p><p>ad altre, tanto che spesso risulta essere conseguenza di divisioni successorie di</p><p>complessi rustici in precedenza più grandi. Questa « tipicità », però, l’essere cioè</p><p>insieme abitazione e complesso di annessi agricoli e/o pastorali, poteva, come già</p><p>accennato, essere raggiunta o fallire. Non tutti sono contadini « autonomi », ma è</p><p>la maggioranza, e non solo a memoria d’uomo ma per quanto si riesce a risalire</p><p>indietro nel tempo, che non è fatta di « coltivatori diretti », bensì di contadini più o</p><p>meno dipendenti dai maggiori proprietari. La casa degli uni e degli altri ne dà</p><p>immediata testimonianza e serve a misurare direttamente il posto che i suoi</p><p>abitatori occupano nella stratificazione sociale locale. La casa del lavoratore</p><p>agricolo nullatenente e dipendente mostra il fallimento dell’aspirazione allo stato</p><p>di contadino (massaiu), cioè alla costituzione di una famiglia-azienda autonoma:</p><p>è priva di annessi agro-pastorali, e ciò significa che, se egli è lavoratore della terra</p><p>o pastore, lavora però alle dipendenze di chi anche nella casa mos tra la sua</p><p>condizione di contadino ricco capace di utilizzare forza-lavoro altrui. La casa del</p><p>contadino ricco infatti testimonia, per così dire, di un eccesso di realizzazione</p><p>dell’aspirazione alla costituzione di una famiglia-azienda autosufficiente: la sua</p><p>grossa azienda ha bisogno in misura notevole e prevalente di « manodopera »</p><p>salariata extrafamiliare perché possiede le condizioni della produzione (terra,</p><p>casa, animali, attrezzi) in misura superiore alle possibilità d’uso da parte dei</p><p>membri attivi della sua famiglia.</p><p>Nelle montagne prevalentemente pastorali la casa di un pastore ricco di gregge</p><p>e di pascolo può anche non lasciar vedere la condizione dei suoi abitatori (ma di</p><p>solito si vede anche lì), ma nelle zone cerealicole, specialmente del Centro-Sud,</p><p>un contado può essere tale a incominciare da come riesce a congegnare la sua</p><p>casa-fattoria di paese. Senza casa adeguata, cioè senza magazzini, stalle, pagliai,</p><p>letamai e altro, non si può essere coltivatori, da nessuna parte, solo che non</p><p>dappertutto questi spazi rustici fanno parte integrante di una casa di paese, e</p><p>tanto meno nella forma< urbana » della Sardegna cerealicola del Centro-Sud.</p><p>Non di rado, e in alcuni centri questa può essere norma, esistono veri e propri rioniceto.</p><p>Si hanno cioè rioni interi di nullatenenti, con case spesso prive</p><p>dell’indispensabile cortiletto (deposito di legna, immondezzaio, bassa corte); rioni</p><p>di contadini medi coi loro annessi cerealicoli (poiché questi raramente sono</p><p>possessori di aziende agricole e pastorali insieme); e rioni di contadini ricchi colle</p><p>loro case che possono apparire francamente smisurate: spesso il complesso di una</p><p>casa-fattoria ricca nel bel mezzo dell’abitato può misurare anche alcune migliaia</p><p>di metri quadri, e a volte superare anche l’ettaro. Rioni di ricchi, dunque, rioni di</p><p>poveri e rioni « di chi sta in mezzo ». A voler essere più precisi però, sono soprattutto</p><p>i rioni poveri che si distinguono con nettezza, probabilmente perché di poveri c’è</p><p>sempre un numero relativamente abbondante per formare agglomerati</p><p>omogenei.</p><p>Spesso risulta difficile discernere queste cose, anche nel recente passato, quando</p><p>l’agro-pastoralità sarda tipica era ancora quella che è stata forse per millenni.</p><p>difficile sia perché il disegno urbanistico spontaneo è complicato dalla presenza</p><p>più o meno sporadica di case di artigiani, di « signori » di edifici privati e pubblici «</p><p>atipici », da una parte; sia perché, d’altra parte, il tessuto urbano risulta unificato e</p><p>ingrigito da una tipicità stilistica che almeno esteriormente rende simili tutte le case</p><p>contadine, con le loro recinzioni cieche di pietre non intonacate; sia perché i vari</p><p>rioni-ceto non erano sempre puri da intrusioni di case di contadini di stato inferiore</p><p>o superiore.</p><p>Specialmente nelle zone prevalentemente cerealicole e nei piccoli cantoni di</p><p>colture specializzate (vite, ulivo, agrumi) del centro-sud dell’isola, le case rurali</p><p>risultano di solito piuttosto « grandi », anche quando siano localmente considerate</p><p>e siano effettivamente da considerare insufficienti i locali adibiti ad abitazione e a</p><p>laboratorio domestico. Una casa da meno, nel Centro-Sud, era rara, tra i</p><p>contadini, i pastori e gli artigiani.</p><p>Le case ricche invece erano soprattutto grandi anche nella parte abitata dalla</p><p>famiglia. Grandi erano specialmente le cucine, di solito doppie e anche triple. E</p><p>grandi erano anche i laboratori domestici per il consumo: il locale della mola, il</p><p>locale per fare la farina e il pane, il locale del forno con la sua cupola esterna</p><p>intonacata con fango e paglia, lo stesso materiale dei mattoni crudi (làdiri) delle</p><p>case povere. E come è ovvio, sono le case ricche che per prime mostrano</p><p>innovazioni di provenienza esterna, fino a « uscire » del tutto da! quadrilatero del</p><p>grande cortile padronale per proiettarsi verso l’esterno a fil di strada, a perdere la</p><p>lolla e assumere l’aspettò di palazzotto comodo e anche civettuolo in forme</p><p>estranee alle tradizioni locali, come il ferro battuto ai balconi e il bugnato in</p><p>facciata. Salvo però il portale, che resta monumentale, ma non è più a&esso</p><p>principale alla casa del padrone, bensì alla zona degli annessi.</p><p>La cultura abitativa sarda dunque apprezza molto la quantità della casa, anche</p><p>quando una parte più o meno grande rimanga inutilizzata nella vita quotidiana.</p><p>Per questo la casa sarda tradizionale (e gli ibridi attuali) non è mai finita, ma è</p><p>pensata in modo che sia aumentabile per giustapposizione di locali e per sviluppo</p><p>in altezza. Casa ricca e bella risulta essere principalmente la casa grande. E di</p><p>conseguenza non è ritenuta di gran valore una casa piccola.</p><p>Il recinto, la corte</p><p>Tutta la costruzione dell’habitat regionale è dunque profondamente segnata</p><p>dalla bassa densità della presenza umana, da una percepibile forma di</p><p>precarietà. Il che non significa naturalmente che gli oggetti edificati non</p><p>possiedano, singolarmente o come « tessuti », una riconoscibile compiutezza, e</p><p>frequenti espressioni di vera potenza costruttiva.</p><p>È però vero, quasi senza eccezioni, che la casa non rende « domestico » il territorio</p><p>e che ha un bisogno praticamente imprescindibile di relazioni con altre case, di</p><p>costituire un universo integrato ma anche contrapposto allo spazio del lavoro.</p><p>Le 120.000 case, che possiamo presumere costituissero a metà Ottocento il</p><p>patrimonio abitativo di quella Sardegna « interna » e « popolare » di cui parliamo ,</p><p>sono una presenza straordinariamente rada negli spazi dilatati dei saltus regionali.</p><p>Perciò ci è parso che occorresse partire, per comprenderne le ragioni, proprio da</p><p>questa presa labile dell’abitazione sul territorio. Abitare in Sardegna rappresenta</p><p>un punto di equilibrio particolarmente difficile proprio per il fatto di collocarsi nel</p><p>contesto della povertà rurale, con una preponderanza dell’autoconsumo</p><p>domestico, quindi con fortissimi vincoli all’espansione dell’economia familiare,</p><p>all’investimento di quote significative di risorse nella sfera abitativa, per il controllo</p><p>e la trasformazione del territorio. Già gli inventari pisani del Trecento ci raccontano</p><p>questa architettura popolare senza qualità: « una casa sardesca di 4, 6, 9 travi » 2</p><p>recitano gli elenchi fiscali dei puntuali emissari di Pisa, evocando ai nostri occhi</p><p>una sequenza indifferenziata di unità cellule misurabili nel più elementare dei</p><p>modi, la trave appunto.</p><p>La casa « sardesca » continuerà, nei 500 anni che seguono quei censimenti, a</p><p>svolgere in un numero illimitato di varianti il tema dell’uso intelligente della scarsità.</p><p>In questa varietà si riconoscono non cesure nette, contrapposizioni, bensì</p><p>gradualità, equilibri che si spostano in genere per sfumature tra i due grandi poli</p><p>della pianura e della montagna, determinando ibridi, compresenze. La casa</p><p>consente una lettura dal Vivo dei livelli di equilibrio, della irriducibilità della</p><p>casistica a tipi rigidi, della mutevole mescolanza di elementi solo in astratto</p><p>ascrivibili al mondo dei pastori o a quello dei contadini. Del resto, gli aspetti estremi</p><p>dell’habitat regionale esaltano le ricorrenti coppie di opposte chiavi di lettura:</p><p>spazio dell’abitare e spazio del lavoro, come pure autosufficienza/ integrazione (o</p><p>autarchia/dipendenza) e ancora individuale/ comunitario, introverso (difensivo)</p><p>estroverso (di relazione), urbano/rurale, sino alla classica polarità</p><p>maschile/femminile, e via enumerando.</p><p>I geografi hanno da tempo elaborato preziose tipizzazioni che riconducono a</p><p>categorie e classi questa multiforme varietà di case rurali delle diverse aree</p><p>regionali. Tra tutte, basti citare la classica individuazione compiuta 50 anni orsono</p><p>da Le Lannou dei « tre grandi tipi di casa rurale E...] la casa montana sviluppata in</p><p>altezza E...]- la casa a cortile chiuso nella pianura e negli altopiani coltivati; una</p><p>casa molto più semplice [...] a nord ovest dì una linea immaginaria da Cabras al</p><p>golfo di Olbia » . O, ancora, la minuziosa casistica elaborata da O. Baldacci</p><p>nell’ultimo dopoguerra, che fotografa un attimo prima della più recente «</p><p>catastrofe » dell’insediamento la dislocazione e i caratteri della « Casa rurale in</p><p>Sardegna ».</p><p>L’economia di questi approcci ha piuttosto lasciato in ombra (per equilibrio</p><p>espositivo o per scelta di metodo) i caratteri evolutivi del tipo edilizio, le relazioni</p><p>tra gli oggetti e la complessa stratificazione della società di cui costituiscono la</p><p>proiezione fisica nella dimensione quotidiana, la profondità storica capace di far</p><p>luce sugli aspetti della trasformazione dell’abitare.</p><p>Rimandando dunque a quelle grandi classificazioni come ad un impianto</p><p>generale di lettura, ci si può proporre il compito di scavare intanto nelle pieghe</p><p>degli oggetti e delle loro forme di rappresentazione per rintracciarne alcune più</p><p>diversificate modalità formative e costitutive.</p><p>Il recinto. Una chiave di lettura che attraversa molte forme della casa rurale</p><p>regionale (probabilmente la quasi totalità) è la sua relazione col recinto. Il recinto</p><p>compare nei documenti giudicali come forma concreta di appropriazione dello</p><p>spazio, con riferimento prevalente allo spazio agrario, alla gestione collettiva dei</p><p>campi e del pascolo praticata dalla comunità di villaggio. la vidazzone, («</p><p>habitacione » nei do-cumenti giudicali del Trecento) che evoca un’immagine così</p><p>estesa ed insieme riduttiva appunto dell’abitare: è come se nel villaggio la</p><p>specializzazione e differenziazione delle funzioni elementari fosse così poco</p><p>evoluta che gli spazi del lavoro quasi coincidono con lo spazio umanizzato e,</p><p>appunto, abitato.</p><p>Questa idea totalizzante di recinto è in certo modo ribadita se la si esamina al</p><p>polo opposto: l’appropriazione più individuale, quella che compie il pastore</p><p>recingendo nel saltus il ricovero per sé e per il gregge. Qua possiamo rintracciare</p><p>una delle condizioni davvero « originarie » dell’abitare: in un qualche punto il</p><p>recinto di pietre si piega, ed enuclea un basamento (circolare per lo più) che si</p><p>specializza come riparo, funzionando da supporto ad una copertura leggera. Ma</p><p>attenzione: questo archetipo di casa è anzitutto un ricovero di attrezzi, dunque</p><p>una specializzazione delle strutture per il lavoro del pastore, nella quale l’abitare è</p><p>sostanzialmente una funzione derivata.</p><p>La pinnetta pastorale costituisce certamente un polo estremo nella casistica delle</p><p>relazioni casa-territorio: il meno specializzato, come già osservato, e anche</p><p>probabilmente il più arcaico, se è vero che è l’unico che utilizzi prevalentemente</p><p>la linea curva per l’impianto murario dell’abitazione, ovvero la modalità di</p><p>edificazione più vicina all’economia del recingere una porzione di suolo col</p><p>minimo sforzo. Del resto, la sua parentela con la capanna del villaggio nuragico è</p><p>così evidente da suggerire continuità storiche concrete, e non semplici analogie</p><p>morfologiche . La conservatività, la resistenza alla trasformazione dell’habitat</p><p>‘pastorale è tuttora simboleggiata dall’uso persistente del sistema recintopinnetta,</p><p>nonostante i molti piani di sviluppo e razionalizzazione che si sono</p><p>proposti di cambiare l’assetto della pastorizia sarda.</p><p>La corte. Se il recinto-capanna umanizza e, in qualche modo, urbanizza la</p><p>campagna, si può dire che il recinto-corte « ruralizza » il centro abitato. La casa a</p><p>corte esprime, nelle sue innumerevoli varianti, la ricerca del livello probabilmente</p><p>più differenziato e complesso nella gerarchia dell’abitare che i contesti regionali</p><p>abbiano saputo realizzare, compatibilmente con lo status e le risorse dei soggetti</p><p>sociali che le costruiscono e le usano.</p><p>Quasi niente sembra accomunare più gli imponenti perimetri murati delle grandi</p><p>case a corte delle zone cerealicole del Sud con i muretti a secco che delimitano i</p><p>recinti pastorali. Eppure alla radice si può ancora riconoscere l’elemento</p><p>strutturale dell’architettura popolare delle campagne , la centralità dello spazio</p><p>racchiuso, circoscritto dal recinto , che può persino fare a meno dell’edificio senza</p><p>cessare di essere una forma di architettura, un modo di abitare il territorio.</p><p>Nell’apparente paradosso per cui il cuore della casa è proprio lo spazio vuoto (la</p><p>corte, che dà il nome a quella specifica tipologia di casa) sta la spiegazione</p><p>dell’altra costante della corte stessa; l’addossarsi dei fabbricati al recinto.</p><p>Essenziale è sempre salvaguardare il carattere accorpato, l’unità della corte —</p><p>pur nelle sue possibili articolazioni: gli edifici assecondano il recinto anche dove</p><p>questo viene piegato a formare, nelle grandi case-fattoria, la linea di separazione</p><p>tra la corte 4 civile » e le corti a rustiche ».</p><p>Il tabù dell’introspezione, comune a tutti i tipi corrispondenti dell’area</p><p>mediterranea. Il recinto è a questo punto un margine murato perfettamente</p><p>impenetrabile tra lo svolgersi dei percorsi perimetrali e lo spazio interno. Le relazioni</p><p>interno-esterno sono concentrate nell’unico varco di cui è dotata ogni corte e</p><p>questo punto singolare (il portale) non a caso si carica delle più diverse valenze</p><p>simboliche ed espressive. L’idea e la pratica dell’affaccio, la proiezione dello</p><p>spazio familiare verso lo spazio pubblico, resta fondamentalmente estranea alla</p><p>cultura della corte; e infatti, non solo il recinto non prevede affacci, ma lo stesso</p><p>portale è piuttosto correlato all’atto del passaggio.</p><p>Se costituisce una forma di esibizione, il modo è assolutamente indiretto e mediato</p><p>dall’architettura.</p><p>L’assetto introverso implica dunque che le bucature siano rigorosamente rivolte</p><p>all’interno del recinto: sulla corte si aprono, in un’ampia gamma di soluzioni, tutti i</p><p>fabbricati che le appartengono, a cominciare da quelli residenziali. Fra questi</p><p>ultimi e il cortile chiuso è interposto spesso un loggiato (folla) funzionalmente</p><p>rinomato per il suo ruolo di regolatore climatico e morfologicamente così forte da</p><p>caratterizzare, con la sua presenza, i fabbricati residenziali della casa a corte.</p><p>La corte, in quanto sistema complesso di spazi aperti, coperti, recintati, chiusi, di</p><p>attrezzature, di funzioni, può essere descritta a partire da diversi livelli e punti di</p><p>vista, e tutti concorrono a metterne a fuoco struttura e significato. Anzitutto in</p><p>relazione al ruolo sociale ed economico dei suoi utenti, alla natura e alla</p><p>strumentazione del loro rapporto di proprietà e lavoro con la terra e i fattori</p><p>produttivi, alla quantità delle derrate trattate e immagazzinate (se strettamente</p><p>legate al consumo familiare o destinate allo scambio), alla presenza o assenza di</p><p>gioghi di buoi, carri, bestiame, ecc. Inoltre, la corte può essere trattata come</p><p>luogo (mutevole eppure costante) della produzione e riproduzione dei rapporti</p><p>sociali e familiari-parentali, delle relazioni patrimoniali, della formazione</p><p>dell’ambiente di vita in uno con l’organizzarsi dei nuovi nuclei familiari.</p><p>Ancora, se ne può parlare come articolazione fisico-funzionale di spazi, fabbricati,</p><p>attrezzature — chiave della vita domestica e del suo inestricabile intreccio con</p><p>l’attività produttiva col metabolismo a cui sono sottoposti i prodotti della terra e (in</p><p>minor misura) dell’allevamento, smistati, immagazzinati, conservati, trasformati, e</p><p>naturalmente anche consumati, quando non sono destinati allo scambio. Nella</p><p>casistica più diffusa lo spazio aperto tende costantemente a specializzarsi e</p><p>dividersi in una area « civile » ed una « rustica ». Tuttavia, sono solo le corti mediograndi</p><p>(e quindi, una minoranza di casi) che realizzano questo schema in termini di</p><p>separazione fisica, ottenuta spesso con un innesto trasversale di corpi di fabbrica.</p><p>Nella gran parte delle case si tratta di un’articolazione non rigida, e comunque</p><p>legata ai materiali delle pavimentazioni, o a recinti interni spesso dotati di</p><p>labilissima consistenza. Del resto, tutto l’universo della corte sembra svolgersi per</p><p>compenetrazione di ambiti integrati e distinti, ciascuno con le sue aree e suoi</p><p>propri assi. La sfera dell’accesso, imperniata sul portale, prevede ricoveri, ripari,</p><p>fabbricati per il rimessaggio di attrezzi e lo stoccaggio delle derrate secondo un</p><p>asse che conduce però direttamente dalla sfera del lavoro a quella abitativa, e</p><p>che ha come terminale</p><p>il loggiato. Quest’ultimo è a sua volta asse della dimensione domestica, cui si</p><p>appoggiano le cellule (domus), i vani residenziali, pochi o molti non importa. Tra</p><p>questi, la cucina appare spesso geometricamente periferica ed « estrema »,</p><p>proprio perché costituisce un luogo di relazione e scambio tra la sfera abitativa e</p><p>quella della lavorazione-trasformazione delle derrate. Sede del metabolismo</p><p>domestico, luogo del focolare, la cucina è legata funzionalmente e</p><p>simbolicamente alla macina e al forno: per la cucina passa l’asse degli spazi delle</p><p>lavorazioni che hanno sede nella corte, e che si proiettano verso le parti « rustiche</p><p>» (i ricoveri delle bestie, l’orto...), cui è fisicamente contigua. Infine, da qualche</p><p>parte nella corte sta talvolta (spesso) anche il pozzo; così, la casa-fattoria realizza</p><p>al massimo grado la sua dimensione di universo integrato e autosufficiente, dove</p><p>persino l’acqua, risorsa scarsa per eccellenza, è domesticata e resa disponibile.</p><p>L’antica Casa del Campidano</p><p>Generalmente le case rurali sarde sono composte da una parte abitativa e dagli</p><p>annessi rustici (magazzini, stalle, letamai, cisterne, abbeveratoi, etc.), con marcate</p><p>differenziazioni a seconda della posizione sociale e del contesto produttivo di</p><p>appartenenza del proprietario. Si diversificano notevolmente anche a seconda</p><p>dell’ area geografica (casa campidanese, montana, a palattu).</p><p>Sono in pietra o in mattoni crudi, solitamente addossate le une alle altre, spesso</p><p>non intonacate all’esterno. I tetti sono di tegole e il soffitto a incannucciata</p><p>sorretto da travature di legno, a uno o a due spioventi. I pavimenti sono spesso in</p><p>terra battuta o lastricati con grandi pietre piatte. Le pareti interne sono intonacate</p><p>con argilla e calce, o con fango e paglia e per lo più dipinte a calce, con colori</p><p>tendenti al rosa e al giallo. Presentano, di solito, un solo ingresso con portone di</p><p>legno.</p><p>Con l’esclusione dell’asinello legato alla mola granaria, cui si destina un vano o un</p><p>angolo della casa, in Sardegna difficilmente si hanno casi di coabitazione con</p><p>animali da lavoro e da cortile.</p><p><strong>Elementi strutturali della casa rurale.</strong></p><p>FONDAZIONI</p><p>Sono realizzate a secco con ciottoli di fiume di dimensioni</p><p>consistenti legati tra loro per mezzo di malta argillosa. Il passaggio dalla</p><p>fondazione in pietra al muro in mattone crudo è scandito da un ricorso in</p><p>mattoni cotti affiancati e disposti col lato maggiore secondo la lunghezza</p><p>della muratura.</p><p>MURATURE</p><p>Il muro veniva realizzato con l'impiego di mattoni di</p><p>"ladiri" disposti a ricorsi successivi in modo tale che i</p><p>giunti tra blocco e blocco di un ricorso risultino</p><p>sfalsati rispetto a quelli del ricorso successivo ed a</p><p>quelli del ricorso precedente; in questo modo si</p><p>garantiva il comportamento unitario della muratura. I mattoni venivano</p><p>collegati tra loro per mezzo di malta di argilla; gli intonaci invece ve vivano</p><p>realizzati con malta di argilla vagliata con interposta paglia di fieno allo</p><p>scopo di ottenere un miglior collegamento.</p><p>Si otteneva così. una muratura praticamente monolitica in quanto costituita</p><p>esclusivamente da materiali tra loro omogenei. Nelle murature, le aperture di</p><p>piccole luci venivano risolte con l'ausilio di architravi realizzate con tronchi di</p><p>ginepro o di altre essenze resistenti; su di esse riprendeva poi la normale</p><p>muratura in mattoni crudi. Le aperture di grande luce venivano invece risolte</p><p>con piattabande o archi.</p><p>E' stato riscontrato un raro esempio di portale architravato con tronchi di</p><p>ginepro .</p><p>Quando le condizioni economiche dei proprietari della casa lo</p><p>permettevano, nel mezzo dell'apparecchio murario in mattone crudo veniva</p><p>usato il mattone cotto per realizzare le parti più sollecitate della muratura</p><p>quali cantonali, piedritti, archi e piattabande. Si introduceva così un grave</p><p>motivo di discontinuità nella muratura a causa delle differenti caratteristiche</p><p>tecniche (resistenza, coefficiente di dilatazione, ecc.) esistenti tra i due tipi di</p><p>mattoni; infatti partendo dalle lesioni che puntualmente si verificavano in</p><p>questi punti di discontinuità gli eventi esterni intraprendevano la loro opera</p><p>disgregatrice dell'edificio.</p><p>SOLAI- Non si è riscontrato alcun caso di solai a volta in pietra o in</p><p>laterizio cotto. Tutti i solai infatti, realizzati con legname reperibile in zona,</p><p>sono costituiti da tronchi opportunamente distanziati aventi funzione</p><p>portante e da un tavolato gravante su di essi avente funzione di pavimento.</p><p>Solamente verso la metà del XX secolo si sono realizzati, per coprire strutture</p><p>murarie in ladiri, solai in cemento armato misto con laterizi e travetti</p><p>prefabbricati</p><p>TETTI</p><p>tetto di questa casa rurale è essenzialmente</p><p>costituito da:</p><p>a) grossa orditura formata da tronchi di legno di</p><p>essenza dura disposti ad intervalli di circa tre metri</p><p>e diretti secondo il lato maggiore del locale da</p><p>coprire;</p><p>b) piccola orditura in travicelli lignei;</p><p>c) incannucciata;</p><p>d) manto di copertura con coppi alla sarda collegati all'incannucciata con</p><p>malta di argilla e paglia o con malta di calce e sabbia.</p><p>Il colmo del tetto è quasi sempre realizzato grazie ad un semplice tronco di</p><p>ginepro o di altra essenza dura avente particolare conformazione e disposto</p><p>in modo tale da svolgere le funzioni di una capriata che sorregga un tetto a</p><p>due spioventi.</p><p>Per realizzare il colmo del tetto veniva usata anche la capriata palladiana</p><p>utilizzando tronchi di legno lavorato; spesso però veniva realizzata secondo</p><p>concezione statica errata col "monaco" poggiante sulla "catena" e senza</p><p>essere collegato a quest'ultima per mezzo della "staffa</p><p>Tutta l'orditura e l'incannucciato, poichè non esiste controsoffittatura, è</p><p>visibile dall'interno del vano; ciò riesce a tipizzare maggiormente questo tipo</p><p>di abitazione.</p><p>INTONACI -Una cosa che viene subito percepita di questo tipo di</p><p>abitazione è la incompletezza della superficie esterna intonacata. L'intonaco</p><p>esterno infatti veniva usato con una certa parsimonia:</p><p>- a scopo protettivo solo nella facciata esposta alla azione disgregatrice dei</p><p>venti dominanti,</p><p>- a scopo ornamentale nelle facciate fronte strada e in quelle prospicienti il</p><p>cortile.</p><p>Abbondano i casi di edifici a due piani in cui una facciata è intonacata al</p><p>piano terreno, ma non al piano sopraelevato. Dobbiamo ammettere che ciò</p><p>riesce a tipizzare ancor più questi edifici. Questi casi da noi riscontrati sono</p><p>tanto numerosi da non poter essere spiegati con la tesi semplicistica del</p><p>mancato completamento delle finiture della costruzione. Per spiegare questo</p><p>fatto bisogna tener presente che la casa in ladiri è una manifestazione di una</p><p>realtà ed economia povera. Infatti il lavoro di costruzione della casa rurale</p><p>veniva eseguito in economia dal proprietario e dai suoi familiari; da gente</p><p>cioè che per improvvisarsi muratore doveva distrarre ore lavorative da quelle</p><p>che erano destinate ai suoi impegni abituali (lavori agricoli, cura del</p><p>bestiame, ecc.). Ne consegue perciò che fosse ritenuto indispensabile</p><p>realizzare l'intonaco del piano terreno di una certa facciata: ciò serviva</p><p>infatti, a causa del fatto che l'intonaco su ladiri diventava (per la</p><p>omogeneità dei due materiali) una struttura monolitica, a rendere più solido</p><p>un muro che doveva sostenere uno o più piani sopraelevati; ne derivava</p><p>quindi un miglioramento della statica di tutta la costruzione. Non altrettanto</p><p>importante per la statica di tutta la costruzione sarebbe stata la realizzazione</p><p>del l'intonaco al piano sopraelevato. E' quindi logico che in un regime di</p><p>rigida economia si intonacassero solo le facciate dei piani superiori</p><p>particolarmente esposte all'azione disgregatrice dei venti dominanti. Va</p><p>sottolineato ulteriormente quanto siano caratteristiche queste case in ladiri</p><p>con le pareti esterne non intonacate e con i mattoni crudi in vista. Queste</p><p>considerazioni appena esposte sono ampiamente confermate da tanti</p><p>esempi di abitazioni ancora visibili .</p><p>SERRAMENTIHanno</p><p>un ruolo molto importante nella definizione</p><p>della tipologia estetica di qualsiasi forma di</p><p>"architettura minore". Questa importanza è ancor</p><p>più accentuata nella casa rurale campidanese</p><p>che, per quanto è risaputo è molto sobria e senza</p><p>alcun arricchimento estetico e formale. Sono tutti</p><p>realizzati con tavole ben stagionate di legno massiccio, non molto lavorate,e</p><p>cori essenze piuttosto resistenti e durature (noce, castagno, ecc.),</p><p>attualmente molto costose, ma che prima erano facilmente reperibili nel</p><p>mercato sardo anche se non sempre nelle foreste viciniori . Molto</p><p>interessante è anche l'armamentario di chiusura tutto realizzato in ferro</p><p>forgiato da fabbri ferrai locali che non disdegnavano alcune ricercatezze</p><p>stilistiche .</p><p>Spesso dal serramento sì riusciva a cogliere il livello economico della famiglia</p><p>che abitava in una certa casa. Infatti un passo carrabile chiuso con una</p><p></p><p>"ecca" (cancello in legno realizzato con stecche di ginepro o di olivastro)</p><p>denotava che per, mezzo di esso si accedeva ad una casa di gente in</p><p>condizioni economiche piuttosto misere. Al contrario un bel portone con</p><p>doghe in legno pregiato e tanto di iniziali scolpite sulla chiave dell'arco de "su</p><p>pottabi" , applicate in legno sullo stesso portone, facevano capire</p><p>inequivocabilmente che per mezzo di esso si accedesse a "sa prazza" e alla</p><p>casa di qualche persona in condizioni economiche piuttosto agiate.</p><p>Struttura - Locali - Materiale da costruzione</p><p>Le tipiche case rurali abitate da contadini e pastori stanno ormai scomparendo</p><p>progressivamente, per dar posto a fabbricati civili e moderni.</p><p>La rustica abitazione veniva costruita in mezzo ad un tratto di terreno alquanto</p><p>esteso al fine di avere locali vari annessi. Il fabbricato, di aspetto e simmetria</p><p>medievale, divideva in due il terreno scelto per l’opera: una parte, e</p><p>precisamente quella pertinente il prospetto della casa, prendeva il nome di</p><p>“prazza” (piazzale antistante); l’altra retrostante veniva chiamata “cottilla” ossia</p><p>cortile. I muri perimetrali si costruivano in pietrame non lavorato con malta di</p><p>fango (“ludu nieddu”); per i muri interni venivano adoperati mattoni crudi (“làdri”)</p><p>fissati con la stessa malta comune. Il pavimento dei vani era fatto in terra battuta</p><p>con uno strato superficiale di malta composta di argilla, paglia e sterco bovino.</p><p>L’impasto veniva messo in opera e spalmato a mano libera da una donna</p><p>chiamata “sa ludàia”. Tale pavimento, detto “prant’e manu”, veniva rifatto exnovo</p><p>o riparato annualmente. La malta per gli intonaci si preparava con l’impiego</p><p>di argilla biancastra e paglia (“ludu cun palla”). Per imbiancare le stanze si</p><p>adoperava un liquido bianco detto “axrìdda” che si otteneva sciogliendo in</p><p>acqua l’argilla biancastra.</p><p>Locali Interni</p><p>Davanti alla facciata della casa si presentava “Su stàbi” detto anche “Lolla”</p><p>(stalla per ricovero bestiame), con due o più archi a tutto sesto oppure a</p><p>trabeazione lignea. Alcuni vani avevano l’apertura (porta o finestra) che dava</p><p>alla stalla; quello dell’ingresso principale era formato da un ampio andito detto</p><p>“saba manna”; a destra di questo, si trovava “sa camber’‘e crocài” (camera da</p><p>letto) e alla sinistra “s’apposèntu bellu” (stanza di rispetto). Un’altra stanza, sempre</p><p>con ingresso dalla stalla, era adibita per i lavori di tessitura col telaio sardo (“sa</p><p>dom’‘e tèssi”). Dietro “sa sàba manna” vi era un piccolo andito detto “su</p><p>passarizzu” alla cui sinistra si trovava “sa coscina” (cucina). Il fuoco si faceva al</p><p>centro della stanza su uno spazio detto “saforrèdda”. In un piccolo vano, a destra</p><p>di “su passarìzzu”, si teneva “sa moba” (la macina sarda); in questo vano vi era</p><p>anche la scala d’accesso al piano superiore.</p><p></p><p>Il piano sopraelevato detto “su sobàriu” o “su stèrridu” era formato da uno o più</p><p>vani di cu uno, il centrale che veniva chiamato “su sobàriu mannu”, più ampio</p><p>degli altri.</p><p>La copertura era costruita in tegole sarde posate su un canniccio sostenuto da</p><p>grezzi tronchi d’albero. Al centro della travaturà andava collocato un robusto</p><p>tronco arcato sul quale poggiavano gli altri di minore resistenza, questo tronco era</p><p>chiamato “su quàddu”.</p><p>Locali Annessi all’Abitazione</p><p>Nel piazzale anteriore, addossato ad un lato della stalla, vi era il pagliaio</p><p>(“s’om’‘e sa pàlla”); inoltre non mancavano il pozzo (“sa funtàna”), il letamaio</p><p>(“su muntroàxiu”) e la provvista di legna da ardere (“su cidrùxi”). Il piazzale era</p><p>recintato con muri a secco. L’ingresso, con cancello di legno a stecche detto</p><p>“gecca de costàllus”, era situato di fronte alla facciata dell’abitazione.</p><p>Nel cortile si trovavano i seguenti locali: “su stabèdd’‘e su forru” (loggetta del</p><p>forno), “s’om’‘e su pròcu” (porcile), e “s’omu de Is puddas” (pollaio). In un angolo</p><p>del cortile, separato dagli altri locali, si teneva “s’accorràzzu”, ossia la latrina.</p><p>Quest’ultimo era costruito a mo’ di capanna e cioè con pali piantati per terra e</p><p>ricoperti con frasche o erba palustre. I cortili più a centro dell’abitato (“mesu</p><p>idda”) erano, come i piazzali antistanti, recintati con muri a secco. Quelli di</p><p>periferia invece erano chiusi con siepe viva di fico d’India o di rovo.</p><p>Ambienti:</p><p>1) “Sa prazza manna” (piazzale antistante)</p><p>2) “Su muntroàxiu” (letamaio)</p><p>3) “Su cidràxi” (catasta di legna d’ardere)</p><p>4) “Sa funtàna” (pozzo)</p><p>5) “Su stàbi” (stalla ricovero per il bestiame da lavoro)</p><p>6) “S’apposentu bellu” (stanza di rappresentanza o salottino)</p><p>7) “Sa saba manna” (sala centrale della casa)</p><p>8) “Sa cambera de croccài” (camera da letto)</p><p>9) “S’om’‘e tessi” (stanza del telaio)</p><p>10) “S’om’‘e su pegus de moba” (locale ricovero dell’asinello)</p><p>11) “S’om’‘e sa moba” (stanza della macina sarda e scala di accesso al solaio,</p><p>“su sobariu”)</p><p>12) “Su passarizzu” (andito)</p><p>13) “Sa coxìna” (la cucina con al centro “sa forrèdda”)</p><p>14) “Sa cambarèdda” (piccola camera da letto)</p><p>15) “S’om’‘e sa palla” (pagliaio)</p><p>16) “S’om’‘e is carràdas” (cantina)</p><p>17) “5 ‘om’‘e su pani” (dispensa)</p><p>18) “Su stabèdd’e suforru” (loggetta del forno)</p><p>19) “Su forru” (il forno)</p><p>20) “S’om’‘e is puddas” (pollaio)</p><p>29</p><p>21) “S ‘om’‘e su procu” (porcile)</p><p>22) “Intràd’‘e carru” (passo carraio)</p><p>23) “S’ottu” (orto o cortile)</p><p>24) “S’accorràzzu” (latrina)</p><p>Sino a qualche decina d’anni fa molte famiglie contadine abitavano ancora in</p><p>vecchie case rurali, alcune delle quali interamente costruite in mattoni crudi</p><p>(“!adri’.</p><p>Tali fabbricati, che peraltro erano senza fondamenta, avevano il pavimento e</p><p>l’intonaco di fango argilloso per cui, ogni anno, era necessario provvedere ai</p><p>lavori di restauro e di abbellimento. Il pavimento si screpolava facilmente anche</p><p>perché a quei tempi si usavano</p><p>“Su ludu friscu” (Restauro e abbellimento annuale della casa) scarpe chiodate</p><p>“crapittasfarradas”. Altrettanto avveniva per l’intonaco; bastava toccano</p><p>appena con la spalliera di una sedia o rasentarlo con un tavolo perché si disfasse</p><p>e cadesse giù a pezzi.</p><p>La malta comune usata per la ricostruzione o riparazione del pavimento, era così</p><p>composta: “Terra bianca, palla e schivorìa de bòi” (argilla bianca e paglia</p><p>impastata con escrementi di animali bovini). L’esecuzione dei lavori di riparazione</p><p>o di ricostruzione ex-novo del pavimento, era volgarmente detta “Prant’e manu”,</p><p>e ciò per il fatto che la malta veniva stesa e lisciata con il palmo della mano. La</p><p>riparazione, invece, dei “murus scroxiobcius” (guasti all’intonaco) era detta in</p><p>gergo locale: “arrangidi is’iscòncius”. Una volta terminati i lavori di “Fant’e manu e</p><p>Iscòncius”, vi era quello di imbiancare le stanze, lavoro questo detto: “Axriddài”. Il</p><p>liquido bianco detto “axrìdda” o “argilla”, si otteneva sciogliendo nell’acqua un</p><p>tipo di argilla bianca che si estraeva da cave esistenti alla periferia dell’abitato</p><p>dette “i’foràdas de sa terra bianca”. Tale argilla sostituiva la calce.</p><p>Questo lavoro di restauro e di abbellimento che prendeva il nome di “hìdufriscu”</p><p>veniva eseguito in primavera, alcuni giorni prima della festa in onore di</p><p>Sant’Isidoro, patrono dei contadini, oppure alla fine di agosto, prima del due</p><p>settembre, ricorrenza di S. Crispo, il Santo festeggiato dai servi agricoli e dalle</p><p>domestiche, “tzaraccus e tzaràccas massdias”.</p></blockquote><p></p>
[QUOTE="Manlio, post: 18869, member: 1997"] [b]Storia delle case tradizionali a Santa Giusta[/b] Le tipologie della cosiddetta "architettura minore" delle varie zone agro-urbane in cui storicamente è stata sempre suddivisa la Sardegna sono fortemente caratterizzate dalle seguenti componenti: - "modo di vivere" dei fruitori degli edifici; - ceto sociale dei fruitori degli edifici; - costo e reperibilità in sito dei materiali costituenti lo stabile. Tenendo conto di ciò si può ben capire come detta architettura, ed in particolar modo la casa rurale, abbia conservato intatti sino alla fine della seconda guerra mondiale quei caratteri personalizzanti ed originali che sono propri dei centri storici dei nuclei abitati ad economia prevalentemente rurale esistenti nella nostra isola. E' ovvio che in un'economia povera come quella della Sardegna rurale, i materiali da costruzione di una casa d'abitazione dovessero essere reperiti possibilmente in sito o comunque in zona; ciò allo scopo di ridurre al minimo l'incidenza del loro costo di trasporto sul costo di costruzione di tutta la casa. A questo proposito giova ricordare che il lavoro di costruzione di una casa rurale veniva eseguito in economia dal proprietario e spesso durava anche alcuni anni. Quanto detto non è valido per la cosiddetta "architettura superiore" (chiese di primaria importanza, abitazioni nobiliari, luoghi in cui si amministrava la giustizia, ecc.); infatti per realizzare queste opere considerate "di un certo livello" si riteneva giustificato l'onere economico dell'acquisto e del trasporto in sito di materiale da costruzione ritenuto pregiato (per maggior resistenza ai carichi ed agli agenti atmosferici e per motivi estetici) ed il conseguente asservimento a determinati stili architettonici di importazione. [b]Il recupero e riuso dei centri storici è un tema attualmente molto sentito[/b]. e dibattuto. Dove viene realizzato consente non solo una valorizzazione del patrimonio artistico-culturale della comunità, ma anche un notevole risparmio economico allo erario pubblico in un momento in cui la carenza d’alloggi è notevole in tutta la nazione. Le case in “ladiri” del Campidano rappresentano una tipologia tra le più caratteristiche e tipizzanti del patrimonio culturale sardo. Al momento, attuale, a causa dell’inefficienza della legislazione urbanistica vigente e della carenza delle leggi che tutela no le bellezze ambientali, esse sono destinate a scomparire. Poichè credo vivamente nella salvaguardia e nel riuso di qualunque centro storico e particolarmente, in quanto improcrastinabile, in quella del recupero dei centri urbani con edilizia in “ladiri”; ho ritenuto opportuno realizzare questo studio tenendo rigorosamente conto di quanto già scritto in proposito da studiosi autorevoli, ma in particolar modo facendo sopralluoghi in sito, fotografando, rilevando e intervistando la gente che in queste case è vissuta o addirittura vive ancora. Nel descrivere l’architettura del territorio, anziché seguire il filo cronologico dell’evoluzione storica, si è scelto di partire dalla configurazione moderna e contemporanea dell’insediamento, usando ciò che abbiamo sotto gli occhi come palinsesto, sul quale cerchiamo di leggere le tracce e le ragioni delle trasformazioni e delle vicende che vi si sono stratificate nel tempo. In questo senso, il « grado zero» non sarà proprio l’oggi, ma un qualche momento di 150 anni fa all’incirca, quando la Sardegna viene percorsa in lungo e in largo (e per la prima volta nella sua storia post-romana) non solo dai pastori, dai commercianti o dalle truppe, ma da viaggiatori, cartografi, studiosi, operatori tecnici delle sezioni di strade e ponti del Genio. Ogni ragionamento organico e strutturato che parta dalla forma del territorio e dalla sua costruzione antropica, dalla valutazione puntuale della sua consistenza fisica, dei rapporti dimensionali tra l’edificazione e l’agro, tra insediamento e pertinenze territoriali, non può che prendere le mosse dai primi decenni dell’Ottocento. questo infatti il momento nel quale, rispetto alle faticose (benché spesso sorprendentemente ricche) opportunità di ricostruzione degli eventi e di scandaglio sui dati offerti dagli archivi più disparati, siamo messi in un brevissimo volger d’anni di fronte ad elaborazioni mature, a ricerche sistematiche e divulgate mediante pubblicazioni a larga circolazione ed a materiali statistici e cartografici con carattere di completezza, confrontabilità, rigore. Questi frutti (un po’ tardi, ma di buon livello) della cultura illuministica ed enciclopedistica sono tutti in varia misura orientati dall’esigenza di « fare il punto » sullo stato del territorio per formalizzare i rapporti giurisdizionali e di proprietà, in vista della ridefinizione generale delle relazioni stato-comunità-individuo-terra . Nell’economia di un discorso sulla struttura dell’insediamento selezioneremo questi materiali a partire dall’immagine cartografica. In questo senso la rappresentazione dell’architettura del territorio ci appare, insieme, un’astrazione tecnica ed una sintesi concettuale straordinariamente efficace ed espressiva. Le finalità topografico-catastali del loro lavoro di cartografi, l’esigenza di fondare la rappresentabilità del territorio, di fornire la maglia di riferimento a larga scala, nella quale inserire i sistemi di individuazione a maglia stretta (soprattutto la fitta rete dei segni della proprietà), producono un’immagine destinata a durare come raffigurazione emblematica. Sulla carta si disegna la trama essenziale dei centri e delle loro relazioni (la rete dei percorsi, a quello stadio fortemente equipotenziale e pochissimo gerarchizzata), una selezionata individuazione dei corsi d’acqua, qualche elemento del rilievo (più annotazioni che impianto sistematico). Le convenzioni grafiche adottate (in particolare la rappresentazione dei centri come sistema di isolati circoscritti dai percorsi ed appena evidenziati con l’ombreggiatura) ci restituiscono la « silenziosità » di quell’architettura, l’opposizione fondamentale fra un nucleo compatto, luogo esclusivo dell’abitare, ed un territorio sostanzialmente vuoto di segni del costruito, luogo del lavoro che non lascia impronte forti, immediatamente registrabili dal cartografo. Ci raccontano ancora la trama larga dell’antropizzazione, il controllo capillare ma precario che l’insediamento prevalentemente accentrato (o, più raramente, disperso) esercita sul territorio, nuclei piccoli (più o meno, s’intende) a presidio di grandi estensioni. Infine, assieme a queste costanti, documentano alcune variabili: può trattarsi di un sistema di partizioni comunali più fitte (come l’addensarsi di centri con territori di pertinenza relativamente piccoli ) o, a scala dal singolo comune, di preesistenze rilevate (le molte chiese in campagna, i pochi casali, i nuraghi). Sono le eccezioni alle regole dell’insediamento che segnalano anomalie storiche, persistenze di habitat per lo più scomparsi, di rapporti più capillari o diversamente strutturati tra le comunità e la risorsa- suolo, tra abitazione e territorio. Da queste differenze possiamo risalire (come se utilizzassimo dei fossili-guida) al tempo che precede il nostro « grado zero », al tempo lungo se non immobile della vicenda rurale sarda. Dare spessore temporale e senso storico agli oggetti edilizi dei villaggi ed ai molti segni presenti sul territorio significa indagare le relazioni tra la conservatività della struttura agraria e pastorale , il filo dell’inerzia che si dipana attorno alla costante della « povertà mediterranea » da un lato, e, dall’altro, la rottura trecentesca, quella sorta di catastrofe originaria, nella quale il movimento accelerato sul piano istituzionale e diplomatico-militare si coniuga con le vicende profonde della società e dell’economia per cambiare radicalmente l’assetto e la forma fisica dell’habitat. Il viaggiatore contemporaneo che percorre la Sardegna non può non leggere ancora i paesaggi regionali nella chiave della bassa densità di presenza umana e dell’uso estensivo della risorsa-territorio da parte della comunità insediata. E le stesse vicende dell’occupazione edilizia delle coste, tanto più eclatante perché svolta sullo sfondo da grandi solitudini secolari, si sono realizzate in modo così totalizzante ed eversivo proprio in quanto non supportate o contrastate da una significativa costruzione locale del territorio. Cosicché oggi si può ancora ammirare uno spettacolo insolito, presumibilmente transitorio: la compresenza di paesaggi contemporanei e arcaici, del consumo intensivo e della presenza labile, talvolta indistinguibile, dell’insediamento. Sulle tracce di questa precarietà, che se ben analizzata si rivela per nulla univoca, ricca di improvvisi addensamenti e rarefazioni, è possibile recuperare una gamma inesauribile di oggetti, dal più ingombrante al più discreto, che consentono di ricostruire in qualche caso il reticolo complessivo degli usi di alcune porzioni di territorio. La consistenza fisica documentabile di paesaggi che analizziamo ha, come già visto, un riferimento di sfondo (la Sardegna medioevale e moderna) ed un « grado zero » . Appunto 150 anni fa si ponevano le premesse per quel sistema di trasformazioni e persistenze che ci fa leggere il territorio come insieme contraddittorio ma integrato. Il padroneggiamento incompiuto dei luoghi che caratterizza la vicenda dell’insediamento in Sardegna doveva sembrare cosa chiarissima a chi ne percorreva allora strade e sentieri. Talvolta sono i percorsi a circoscrivere il paesaggio agrario, laddove la monocoltura cerealicola domina col suo sistema di campi aperti nella terra dove più consolidato e forte è il controllo sociale ed individuale del territorio, la rivoluzione istituzionale della proprietà non ha sostanzialmente variato il paesaggio storico dell’openfield. Non meno decisiva è la persistenza o la bonifica della palude, che doveva costituire ancora cento anni fa una costante assoluta del territorio regionale ed anche uno degli aspetti più degradati del suo difficile regime idrico. Al polo opposto si colloca invece l’uso produttivo dell’acqua come fonte di energia per le prime e quasi uniche macchine dell’archeologia industriale popolare. Molini e gualchiere (e frantoi) sono diffusi un po’ dappertutto e specialmente concentrati laddove si realizzano particolari condizioni geografiche, di accessibilità, e anche di imprenditorialità dei gruppi locali. Abbiamo già riconosciuto il carattere precario ed arcaico della rete registrata puntualmente verso la metà dell’Ottocento dalle nostre fonti. Un sistema esile di strade vicinali unisce fra loro i centri, disegnando una maglia sostanzialmente equipotenziale e scarsamente gerarchizzata. La « Strada Reale » e poi le provinciali costituiscono, nella cartografia il solo segno esplicitamente artificiale, in quanto dotato di un tracciato controllato geometricamente. Rispetto al serpeggiare di tutti gli altri percorsi (segnale dell’aderenza forzosa alla topografia locale), gli interventi statali costituiscono dunque il prodotto di un progetto di trasformazione esterna, capace di imporsi con la sua tecnologia alla naturalità dei luoghi. Intorno alla metà del secolo scorso, avviata o completata una prima parte della infrastrutturazione viaria a grande scala, l’intervento si sposta sulla risoluzione di una lunga serie di problemi locali. Il supporto morfologico del sistema viabile si può riassumere in questi elementi: crinali generalmente percorribili e spesso anzi carreggiabili; coste scoscese talvolta neanche percorribili a cavallo, valli di montagna che rappresentano vere e proprie barriere morfologiche prima ancora che idrografiche , pianure alluvionali percorribili e carreggiabili solo nella stagione asciutta, con alcune difficoltà nel guado dei fiumi più grossi, pressoché impraticabili invece nel periodo delle piogge, delle piene e degli impaludamenti. Queste strade, secondo tutte le descrizioni dell’epoca, si percorrono in molti casi con difficoltà enormi. Le vie di pianura cedono sotto il peso dei carri, che restano « incagliati in gorghi fangosi » e i cavalli e i buoi « devono consumare le loro forze per uscire da’ pantani. E il ponte rappresenta l’eccezione persistenza logorata di tempi mitici e sconosciuti o prodotto di trasformazioni recenti e non consolidate che la prima piena può rimettere in discussione. I ponti « che ancora sussistono sono pochissimi » e qualcuno di essi « minaccia di rovinare ». La costruzione di un ponte, affidata agli sforzi dei singoli comuni, è operazione epica dagli esiti incerti. La precoce rovina di queste strutture di non alto livello tecnologico è piuttosto frequente, e la loro localizzazione è rigorosamente determinata da regole e vincoli analoghi a quelli che determinano la posizione dei guadi naturali. Sopra quel resto dell’antica costruzione si suole distendere alcune travi per il passaggio a’ pedoni; ma accade soventi che le acque crescendo le rapiscano nella corrente, e restino intrapresi i viandanti. In questo riuso degradato e rabberciato delle strutture smesse di altre epoche, nell’inerzia pressoché generale con cui si assiste al disfacimento fisico ineluttabile delle opere d’arte, in un fortissimo quadro di persistenze raramente evolutive (e più spesso riscontrabili al livello del grado che sopravvive al ponte, del sentiero che sopravvive alla strada, del segno che sopravvive al manufatto), nella memoria mitica della strada romana e del ponte giudicale si legge il senso della stagnazione plurisecolare che, se non è da assumere come visione semplificata delle vicende storiche del sistema viario, la dice però lunga sulle condizioni in cui versava tale sistema al giro di boa rappresentato dall’abolizione del feudalesimo. Le istituzioni sovraordinate alla comunità per secoli paiono intervenire come puri estrattori di risorse; dall’Ottocento in poi diventa tangibile anche qualche contropartita in termini di trasformazione attiva del territorio. Nel primo periodo post-unitario la costruzione o la regolarizzazione di un certo numero di strade intercomunali e provinciali introduce, oltreché un disegno di razionalizzazione dei collegamenti, nuove gerarchie . Architettura tradizionale e stratificazione sociale nelle campagne In tutta la Sardegna, e specialmente nelle zone cerealicole del Centro-Sud, ancora fino a qualche decennio fa, e in parte anche oggi, vigeva un sistema complesso di utilizzazione comunitaria del territorio, che obbligava a regolare collettivamente i luoghi, i modi e le fasi del lavoro agricolo e pastorale, fosse o meno prevalente l’una o l’altra delle due attività. Pastorizia e cerealicoltura sono del resto sempre più o meno armonicamente associate e coordinate nell’occupazione dello spazio conosciuto, posseduto e utilizzato in forme varie. L’organizzazione comunitaria per l’uso dello spazio coltivato e abitato appare funzionale all’uso doppiamente complementare del territorio complessivo sia come luogo della coltivazione e del pascolo, sia come luogo abitato dagli uomini e dagli animali domestici e da lavoro. In Sardegna su sartu si distingue dal « proprio » centro abitato: ogni centro abitato ha il suo « sartu », e ogni sartu è pertinenza di un centro abitato. La distinzionecontrapposizione più sentita è infatti quella tra luogo abitato (bidda) e il suo esterno (sartu, o foras de bidda). Il contadino e il pastore abitano nel paese (in bidda), ma lavorano quasi soltanto in campagna (in su sartu). Sartu e bidda sono nettamente distinti. Una distinzione ovvia e quasi universalmente umana, ma qui è molto forte, benché le opere domestiche di tipo agricolo (specialmente la cura degli animali da lavoro) non siano trascurabili. Infatti, come si vedrà subito, la casa del contadino sardo è sempre, almeno come aspirazione, anche fattoria, luogo delle attività contadine non campestri. Però è una casa di paese, mai di campagna. E insomma una casa-fattoria. E tale è in certa misura anche quella del pastore nelle zone dove la pastorizia è complementare alla cerealicoltura, dove anche l’ovile è spesso parte della casa-fattoria di paese. Non si sottolinea mai abbastanza che in Sardegna gli abitati non sono (se non, raramente per partizioni amministrative decise altrove) entità associate o dipendenti da altre, come il Dorf o lo hameau centro europeo. Si tratta invece di entità potenzialmente autosufficienti come possibilità e organizzazione produttiva e abitativa e di solito autosufficienti anche come organizzazione sociale, giuridicopolitica (comune) e religiosa (parrocchia). Il coordinamento comunitario e forzoso si deve in particolare al fatto che l’agricoltura e l’allevamento si conducono nello stesso spazio coltivato e utilizzato di solito ad anni alterni come pascolo e come campo. E il sistema di vidazzone e paberile , cioè un sistema di rotazione biennale dei campi aperti che, grosso modo, bipartisce il territorio utilizzato in due grandi zone: una per la coltivazione a grano (vidazzone), e una per il pascolo (paberile), con alternanza annua. Il sistema funzionava meglio, e in tutta la Sardegna, in tempi in cui vigeva ancora più o meno importante ed esteso il possesso comunitario dei campi aperti: cioè fino alla legislazione anticomunistica sabauda della prima metà dell’Ottocento, che si proponeva la creazione della « proprietà perfetta » della terra. Il sistema tuttavia, e tutto un complesso di usi correlati, si è conservato fino a oggi in vaste zone del centro-sud dell’isola. La comunità provvedeva a regolare l’uso dei campi aperti (e in parte anche dei pascoli permanenti) come luogo di pastura e come luogo della coltivazione. Oltre che con la rotazione biennale forzata, ciò si otteneva anche tramite una specie di contratto collettivo detto comunella, che regolava l’utilizzazione dello spazio agropastorale come pascolo quando non era utilizzato per le colture. Se a ciò si aggiunge un corpo di polizia rurale (barracellau), remunerata di proprietari in ragione della quantità dei beni da custodire; l’esistenza di spazi comuni per il pascolo del bestiame da lavoro, di aie comuni e di chiusi comuni per il pascolo degli asini posseduti e usati da singole famiglie per le mole domestiche per il grano; le varie corvées (cumandatas) per la creazione e la manutenzione di strade interne all’abitato e di penetrazione agraria; l’uso pubblico e regolato di fontane e abbeveratoi, e altre organizzazioni più ristrette, si avrà un’idea delle forme di regolamentazione collettiva nell’uso degli spazi interni ed esterni all’abitato. I pascoli e i campi aperti di proprietà comune, prima delle riforme anticomunistiche del secolo scorso, erano assegnati per sorteggio, anche se i diritti d’uso, coi tempo, solevano anche ereditarsi, e benché la forma privata di possesso fosse già molto diffusa, specialmente nelle zone più marcatamente cerealicole, al momento delle riforme suddette. Il quadro sarebbe troppo schematico se non si notasse una caratteristica notevole, comune a tutta l’isola e a gran parte del Mediterraneo cerealicolo: la dispersione e la polverizzazione fondiaria. Anche le proprietà familiari più grandi risultano estremamente frazionate e disperse in tanti piccoli campi distanti più o meno l’uno dall’altro, accomunati solo dalla rotazione obbligata biennale a grano e a riposo-pascolo. La concentrazione degli abitati può considerarsi causa e conseguenza di questa situazione fondiaria. Senza accorpamenti, niente appoderamenti e case campestri sul fondo, e viceversa. In altri tempi, infatti, e ciò è documentato per l’età romana e medievale prima della conquista iberica, le cose andavano diversamente: in zone dove oggi esistono una decina di centri abitati compatti, ne esistevano circa tre volte tanto. Ma gli spazi coltivati e abitati, così come gli altri mezzi di produzione e i prodotti delle varie attività, non erano distribuiti e posseduti in maniera paritaria, specialmente quando il tipo di possesso era quello della proprietà privata. Ma anche l’accesso alle terre comuni e al pascolo comune era ovviamente subordinato al possesso di attrezzi e animali da lavoro e delle sementi, o al possesso di animali da allevamento brado, oltre che alla possibilità psico-flsica individuale di compiere il lavoro e all’appartenenza alla comunità territoriale. Meres o prinzipales (padroni) e theraccos (servi) nel Nord, zappadori a Sassari, pro prietarius mannus e serbidorir nel Centro-Sud, giornaderis nei Campidani, sono solo le denominazioni più comuni dei tipi o ceti sociali locali più importanti in cui si stratificava la popolazione rurale negli ultimi secoli. Stratificazione che si delinea soprattutto in base alla proprietà dei principali mezzi di produzione agropastorale. Ricco e povero qui sono « sempre » esistiti nella realtà sociale vissuta e nel modo tradizionale di pensare il mondo, la società, comunque poi questa dicotomia tra ricco e povero venga spiegata, valutata, giustificata, deprecata. Bisogna certo osservare che anche qui il modello ideale e perciò l’aspirazione dei ceti meno abbienti è la realizzazione di una famiglia-azienda, cioè di organismi a base familiare che siano insieme unità di consumo e unità di produzione, oltre che unità di riproduzione della vita umana individuale e unità di coabitazione. Ma la realtà è « sempre » stata diversa: poche famiglie con mezzi di produzione (terra, animali, attrezzi, spazi costruiti) in quantità superiore alla loro disponibilità di lavoro familiare, da una parte, e dall’altra molte famiglie senza mezzi o con scarsissimi mezzi di produzione oltre la forza lavoro dei singoli; e in mezzo una quantità non trascurabile di contadini e pastori medi e piccoli che più o meno a stento riuscivano a riprodursi come famiglie-aziende autonome. È chiaro che la prima categoria dei possidenti (prinzipales, meres, proprietarius) e la categoria dei poco o nullatenenti dipendevano l’una dall’altra in modo sbilanciato a favore dei primi: i prinzipales o meres o pro prietarius sono i « padroni » di uno suolo di servi, giornalieri, semioccupati, lavoratori più o meno precari e dipendenti. Sono appunto i ricchi e i poveri su misura locale. Vedremo come le loro case fossero segno inconfondibile di questa situazione stratificata in subalterni e dominanti e come il modo d’abitare, anche qui, fosse e sia un modo tipicamente locale di rapportarsi l’un l’altro e di misurarsi come figure sociali. Organizzazione asimmetrica, dunque, in base al possesso sbilanciato delle condizioni della produzione: cioè, principalmente, di terra, animali, attrezzature (compresa la casa-fattoria), capacità di lavoro effettivo. Faremo solo l’esempio del rapporto tra padroni e servi di campagna, che durava formalmente un anno solare, dall’inizio dei lavori di campagna all’inizio di un nuovo ciclo, di una nuova annata. I servi erano gerarchizzati in una scala che ne prestabiliva la carriera. Al vertice, un capo dei servi di campagna (sotzu). In linea di principio la gerarchia si basava sulle capacità operative dei servi, di solito fatte coincidere con la loro età. La carriera incominciava verso i dieci anni, come addetti al pascolo e alla cura degli animali da lavoro (boinargius). Con l’eccezione possibile del soizu, i serbidoris vivevano in casa del padrone. E importante notarlo perché questa coabitazione ha a che vedere con il tipo di casa-fattoria di cui si tratterà. E dà ragione immediata di che cosa significhi che le famiglie-aziende dei maggiori proprietari (messaius mannus o propri etarius mannus) esorbitavano per eccesso la realtà (spesso esagerata) e l’aspirazione (altrettanto spesso non realizzata) dell’autosufficienza e dell’autoconsumo familiare contadino. Ancora fino agli anni Cinquanta di questo secolo il padrone forniva vitto e alloggio come parte della remunerazione dei servi di campagna, mentre il resto dei compenso era anch’esso soltanto in natura (cereali o bestiame). Il pernottamento obbligatorio nella casa-fattoria del padrone, situata sempre dentro l’abitato, è un uso che si è conservato fino alla scomparsa di questo tipo di lavoro subordinato, nei primi lustri di questo dopoguerra. Il padrone forniva anche i pasti che si consumavano in campagna. La sera i servi rientravano a casa dei padrone, non più tardi delle otto-nove di sera anche nei giorni festivi. Qui per loro esisteva un locale-dormitorio, dove i servi passavano la notte su stuoie di erbe palustri, per essere pronti all’alba della nuova giornata di lavoro, che naturalmente durava, sui campi, dall’alba al tramonto, ma che spesso si prolungava in casa del padrone fino a notte inoltrata e incominciava prima dell’alba, per esempio per dedicarsi alla cura degli animali da lavoro. Era proverbiale dire che il padrone aveva maggiori riguardi per i suoi animali che per chiunque dei suoi servi, che non aveva comprato in fiera. Soltanto il capo dei servi (sotzu), specialmente se era sposato, di solito poteva passare qualche notte feriale in casa sua. E utile considerare che in queste zone i contadini ricchi sono di rado assenteisti, ma vivono nel paese dove hanno le loro aziende e se ne occupano. Venendo meno la conduzione diretta, la casa-fattoria di paese tende a venir meno, com’è successo nel Nord cerealicolo, dove gli annessi agricoli e gli animali da lavoro e da allevamento sono stati espulsi fuori dall’abitato, compatibilmente però con un’agricoltura e una pastorizia meno florida e meno animata da una « imprenditorialità » familiare diretta. Il rapporto di lavoro subordinato a contratto annuale tipico del Centro-Sud permetteva a un « imprenditore » agricolo — e tali erano i maggiori proprietari, nella misura in cui erano acquirenti di forza lavoro remunerata a contratto e anticipatori di risorse per produrre beni almeno in parte anche venduti o comunque scambiati — di servirsi dei loro dipendenti a pieno tempo: di disporre cioè del tempo dei loro servi senza che questi potessero avere più di qualche possibilità occasionale di intervenire in questo tipo di decisioni. Il tutto era regolato da norme consuetudinarie che non prevedevano molta tenerezza per i suoi dipendenti da parte della famiglia del padrone. E dunque soprattutto la coabitazione che indica, spiega e permette quest’uso del tempo dei subordinati in modo quasi totale. In questo modo infatti i serbidoris passavano anche il tempo di non lavoro (riposo, pasti) nella casa padronale, in seno alla quale costituivano una sezione subalterna dell’unità familiare di produzione e di consumo, oltre che di residenza, gestita dal padrone. La padrona (di solito moglie) gestiva direttamente l’altra sottosezione della servitù domestica, normalmente solo femminile, a volte addetta anche a certi lavori agricoli riservati alle donne. Erano però i servi di campagna (e le serve domestiche) che vivevano in casa del padrone, non le loro famiglie. Le famiglie dei serbidoris costituivano unità di residenza e di consumo (qualche volta anche di produzione più o meno precaria) del tutto autonome: in case, appunto, che ben ne mostrano la condizione di famiglie che non sono aziende. I pescatori dipendenti, detti anch’essi serbidoris, delle peschiere degli stagni costieri sardi erano di solito anch’essi organizzati in modo simile, compreso l’obbligo di residenza e di pernottamento, per lo meno a turni, nelle « case » (sa domus) di peschiera, come per esempio a Cabras e Santa Giusta (Oristano), fino a pochi anni addietro. Con la differenza però che nel caso dei pescatori di stagni costieri il padrone non viveva in peschiera, ma è ritenuto un tipico padrone assenteista. I contadini medi e piccoli, a volte perfino privi del tutto di terra — e perciò dipendenti dai maggiori proprietari nella forma dell’affitto di un tipo locale di mezzadria a tempi brevi —, realizzavano più o meno sufficientemente lo scopo di far coincidere famiglia e azienda, unità di produzione unità di consumo. Un contadino medio, e soprattutto un contadino piccolo, ha bisogno di lavoro supplementare a quello di cui può disporre in famiglia quasi solo nel momento emergente del raccolto. Ma essi pure usufruivano dei servizi collettivi (polizia campestre, aie comuni, pascolo comune dei buoi da lavoro, ecc.). I maggiori proprietari di terra, di strumenti e di bestiame da lavoro, e perciò anche maggiori produttori agricoli, erano pure i proprietari più grandi di bestiame da allevamento (soprattutto pecore). Invece le aziende dei contadini medio-piccoli erano quasi sempre aziende monocolturali cerealicole, mentre per le aziende dei maggiori proprietari cerealicoli, che spesso erano anche aziende allevatrici, la componente agricola risulta quasi sempre predominante su quella pastorale. Una menzione, infine (altrove si parla di artigiani) della categoria dei « signori », non sempre ricchi, però diversi, anche come abitudini abitative, dal resto della popolazione contadina, pastorale e artigiana, e un cenno anche al ceto dei mercanti. i « signori » erano i pochi addetti ai servizi dell’amministrazione locale e statale, della salute, dell’istruzione popolare e della religione cattolica ufficiale. Situazione a sé era anche quella dei commercianti di vario tipo e calibro, con esigenze e possibilità abitative di solito superiori a quelle medie locali. « Signori » e « mercanti » erano agenti e intermediari locali di attività di tipo esterno: dello stato e del mercato. Più o meno estranei agli usi locali, lo mostrano nelle loro case di tipo anche cittadino: non case-fattorie, né tanto meno case « povere », ma imitazioni più o meno ruralizzate del palazzotto di tipo cittadino. Quello che andiamo descrivendo è dunque un mondo ancorato alla terra, caratterizzato da « una base fortemente territorializzata » della società e dello spazio insediativo che essa stessa si è costruita. Altrove una piazzaforte, un mercato, un porto si localizzano in funzione di problemi di controllo a vasto raggio, del territorio; si tratta di forme insediative che presuppongono una strategia territoriale di ambito non locale, un progetto insomma che trascende le comunità e si propone come strumento di razionalizzazione in qualche modo pianificata ed esterna. Stiamo dunque parlando di una costruzione tutta « interna », sia in senso geografico, sia in senso antropologico: autosufficienza, autoregolazione (ma, anche, autarchia e autoconsumo) sono l’orizzonte di sfondo dello spazio regionale. Il che non presuppone affatto una reale autonomia, perché su quello sfondo sta anche, non meno essenziale, il dominio esterno alla comunità (sia esso baronale, statuale, militare). Dentro queste coordinate si è disegnato, per secoli, il sistema dei villaggi sardi: ciascuno e tutti, pur nella varietà delle di mensioni, forme e relazioni, ci appaiono profondamente e quasi univocamente segnati dal radicamento locale, da un equilibrio economico e morfologico-localizzativo strettamente aderente alla risorsa-territorio. Il paese è un luogo « medio », un baricentro del suo spazio di pertinenza almeno in tre sensi. La comunità, se appena può, anzitutto si installa e si consolida tra il campo ed il monte: tutto ciò per garantirsi al massimo livello possibile una gamma completa di opportunità di sussistenza. Così si tende a scegliere come luogo da abitare un sito che renda equilibrati accessibilità e controllo sui luoghi del lavoro. In secondo luogo, il paese è, per ogni contadino, il baricentro ideale della proprietà dispersa, dei molti campi distanti fra loro che è forzato a coltivare (in proprio o per conto d’altri) compiendo la quotidiana fatica dell’andata al campo e del ritorno al villaggio. La terza centralità è per l’appunto quella dell’abitare: una contrapposizione macroscopica, mai abbastanza sottolineata, tra il pieno del paese, l’addossarsi densissimo delle case, dei muri, dei portali nel perimetro dell’abitato e il grande vuoto del campo e dell’incolto, tra luogo dell’abitazione e luogo del lavoro. A guardare bene, le differenze e le specificità sono poi tante; non abbastanza però da togliere significato al modello. Cento anni fa, le dimensioni dei villaggi oscillavano dai 121 abitanti di Baradili (il più piccolo), ai 6.638 di Quartu (il maggiore). Eppure, il centro-tipo è senz’altro un paese tra i 1.000 e i 2.000 abitanti, con un territorio comunale ampio, ben distanziato dai centri vicini non meno accorpati e compatti, isolati e autosufficienti se non ostili fra loro, comunque non facilmente solidali. Questa identità prevalente, ben esemplificata dal villaggio di pianura e dal medio borgo pastorale, abbiamo già visto come non sia né « originaria » né metastorica, ma piuttosto frutto di un complesso insieme di eventi, e di violente ristrutturazioni. Questo sconvolgimento, naturalmente, non ha agito omogeneamente, ed anzi ci ha consegnato un territorio segnato da profonde differenze interne. Qua e là, veri e propri sistemi insediativi interconnessi organizzano il proprio spazio agrario in forme capillari, più conservative e arcaiche. Si può considerare anzitutto il caso di quei villaggi (non pochissimi) che sono esplicitamente il prodotto dell’aggregazione di nuclei distinti. Questo addensamento di entità distinte, dotate di propria fisionomia indipendente, almeno finché le rileva il cartografo ottocentesco (ed anche successivamente) rinvia al modello medievale della scolca , una sorta di associazione solidaristica (e presumibilmente di difesa e assicurazione reciproca) che poteva coinvolgere anche i membri di comunità differenti realizzandosi concretamente nella vicinanza insediativa nella gestione di un territorio comune. Ma non sono solo questi casi-limite a contraddire il modello dominante. Lo stereotipo del villaggio bloccato e monolitico si risolve spesso in una diversa immagine, quella di un’unità che si realizza per parti; anzi è proprio dalla dialettica delle parti « I vicinati »che si può ricomporre nel centro la identità e la complessità insediativa perduta sul territorio. Di frequente si consolidano, in angoli particolarissimi dentro i saltus spopolati, costellazioni di centri unificati dalla loro prossimità reciproca che li rende eccentrici rispetto a territori talvolta vastissimi. A ritroso, la « storia immobile » del villaggio è percorsa da considerevoli sussulti, di cui l’insediamento porta tracce evidenti. Il numero stragrande di chiese campestri disseminate in ogni angolo della regione non è il frutto di un movimento centrifugo di appropriazione rituale dello spazio agrario che si irradia dal villaggio ma, al contrario, il prodotto di un processo inverso, centripeto, di abbandono e concentrazione. La chiesa campestre si segnala spesso come un fossile, il sito di un centro scomparso, i cui abitanti hanno infine trasmigrato verso un villaggio più o meno vicino, portandosi appresso il proprio territorio e la continuità rituale di frequentazione della chiesa corrispondente (la sagra campestre) come pegno di possesso. Ma anche a scala assai più vasta si creano interdipendenze e sistemi: e ciò nelle condizioni più disparate. Frutto dell’assetto « cantonale » del territorio, hanno costituito da sempre (e tendono a conservare anche oggi) unità di comunicazione interna, relativamente isolate, o comunque fisicamente e funzionalmente ben individuate, rispetto alle aree vicine. I casi considerati , tuttavia (piccoli grappoli di centri con un’economia mista agro-pastorale) sono tutto sommato fenomeni di margine, pur se molto significativi, nel tessuto insediativo regionale. Diverso è il peso di alcune aree fortemente specializzate, in particolare in senso cerealicolo. Centri piccoli, compatti e numerosissimi, che cento anni fa contavano ancora un centinaio di famiglie ciascuno, in media, controllano capillarmente territori di dimensione inferiore ai 1.000 ha, di gran lunga la minima superficie rintracciabile nei vasti spazi regionali. I confini amministrativi di questi centri disegnano un reticolo perfettamente riconoscibile in quanto ormai unico nella griglia dei territori comunali della regione: l’eccezione della maglia stretta dentro la regola delle maglie larghissime dell’habitat accentrato. Qua la comunità locale, anche nel generale processo di ripiegamento e concentrazione di 5 o 6 secoli fa, ha conservato questa forma di presenza diffusa, che perpetua la stretta economia del rapporto col suolo proprio del villaggio accorpato (nessuna casa nel campo), ma la ripartisce su perimetri relativamente corti, su orizzonti di comunicazione molto prossimi. La base di questo rapporto originario con la terra è la disponibilità delle colline a nord-est del Campidano ad accogliere la migliore cerealicoltura dell’isola senza richiedere quegli investimenti in bonifica, drenaggio, controllo del regime delle acque che le comunità locali per molti secoli non sono più in grado di esprimere autonomamente. Quando questo delicatissimo equilibrio della scarsità è rotto (e ciò accade quasi dovunque), si produce il grande villaggio, con una pertinenza territoriale di decine di migliaia di ettari, autosufficiente per necessità dettate dall’isolamento, privo spesso persino di contatto visivo con altri villaggi. In pianura, la scansione dei centri (oltre che sulla misura del territorio produttivo) è organizzata in se-quenza sulle principali vie di comunicazione. Altrove prevale la problematica del controllo dei grandi saltus, gli spazi delle pratiche pastorali e « naturali » cui era legato molto della sussistenza fisica di intere comunità. Dal conflitto su questi territori è segnata, come si vedrà di seguito, la vicenda di non pochi dei nostri centri. Il villaggio e le sue parti. Il villaggio, visto per così dire « da lontano », esprime soprattutto omogeneità e compattezza, opposizione radicale e univoca allo spazio agrario e naturale. « Da vicino » invece, se ne vedono articolazione e differenze. Non sempre, naturalmente, è possibile riconoscere un vero e proprio processo di aggregazione dall’esterno, né disponiamo di fonti sicure su gran parte dei movimenti adombrati nei miti di fondazione e rifondazione. Tuttavia, dove la cartografia e la toponomastica catastale ottocentesca si presentano sufficientemente articolate e precise con l’ausilio della tradizione fondativa, si può arrivare a dar conto di un sistema documentato e riconoscibile. Fontane e pozzi pubblici da un lato e chiese dall’altro formano dunque i poli di aggregazione dei diversi settori del paese. Praticamente, nelle cartografie ottocentesche, ad ogni vicinato corrisponde una fontana e, con eccezioni solo marginali, una chiesa; inoltre, ciascuna di queste è collocata in posizione centrale o comunque dominante solo rispetto al suo vicinato.Il caso esaminato costituisce indubbiamente un episodio- limite, anche se esemplare in quanto condensa in s gran parte degli elementi di riconoscibilità delle parti urbane, che altrove si presentano in forme più incerte e parziali. 2. La cultura della divisione Dentro lo spazio abitato il ricco e il povero, il proprietario ed il biacciante si ritagliano i loro ambiti, si muovono, costruiscono e trasformano le abitazioni, spostano faticosamente e per quantità minime (eppure significative, talvolta decisive) le frontiere tra pubblico e privato, tra edificato ed agro. La piramide sociale è tutt’altro che appiattita, se è vero che cent’anni fa un tipico borgo cerealicolo (per il quale la dimensione della proprietà fornisce una misura sufficientemente attendibile delle gerarchie di reddito) contava 16 grandi proprietari su 500 nuclei familiari . Dunque, si può ragionevolmente ritenere che il villaggio, nella sua forma attuale accentrata, sia proprio il luogo dove si svolge concretamente il rapporto di conflitto e di integrazione fra i pochi prinzipales ed i moltissimi nullatenenti, variamente mediato da una gerarchia sociale intermedia ricca di sfumature. Infatti i molti proprietari medi e piccoli, cui non è in teoria del tutto precluso l’accesso alla fascia superiore, sono però anche soggetti il cui patrimonio è continuamente esposto ai rischi più disparati. Anche se l’incerta tradizione orale non consente di definire una mappa degli antichi vicinati o quartieri, in alcuni casi l’impronta lasciata dalle stratificazioni delle classi sociali nell’insediamento è assolutamente ricostruibile. L’ossessione dell’acqua [b]Nel rapporto « al limite » con la natura e le risorse che caratterizza il villaggio, l’acqua è una presenza ossessiva,[/b] un fattore permanente di necessità e di rischio. Abbiamo visto come geografia e geologia si siano coalizzate a complicare il problema: così, l’acqua inanca quando la si vorrebbe, ma quando arriva può essere un flagello; è capace di ristagnare nei modi più indesiderabili nelle paludi, e però anche di scomparire quando sarebbe più necessaria, facendosi inghiottire dagli innumerevoli fenomeni carsici della regione. In altri termini, è ancora possibile leggere e interpretare il territorio, la forma dell’habitat e la dislocazione dei centri come il prodotto di un meccanismo complesso nel quale la presènza e l’assenza della risorsa idrica, la vicinanza o la lontananza dalle zone a più difficile drenaggio, la possibilità o l’impossibilità di controllare il regime idrico hanno costituito altrettanti elementi decisivi per orientare le scelte delle comunità locali in ordine all’insediamento. Naturalmente, le diverse alternative hanno avuto influenze ed esiti differenti nel corso dei tempo; ciò equivale a dire che l’acqua non può essere considerata come una determinante puramente fisica, ma che invece è « determinante » il modo con cui la comunità si rapporta al territorio, la sua tecnologia, la sua organizzazione produttiva e socialeL’obiettiva difficoltà di captare e irreggimentare l’acqua, unitamente allo scarso contenuto tecnologico della cultura insediativa nel villaggio, ci fanno immaginare a quali stringenti e drammatiche alternative fosse soggetta la scelta del sito. Allontanarsi dall’acqua scontando scarsità terribili o avvicinarsi, rischiando periodicamente i suoi effetti devastanti, o il continuo stillicidio del paludismo malarico: questa è stata per secoli, in una sintesi estremizzata, la condizione del centro agricolo medio. Il pozzo diventa dunque un vero fulcro del villaggio, anzitutto a partire dall’organizzazione domestica di quelle abitazioni che possono permetterselo. Se sta in una corte (e ciò accade quasi sempre), il pozzo è collocato in posizione geometricamente e funzionalmente centrale. Nelle grandi case- fattoria può assumere proporzioni imponenti, vero monumento all’acqua, di grande sezione e di impianto murario impegnativo. Nella gran parte dei casi, un manufatto relativamente modesto (anche se costruito spesso con grandi lastre monolitiche in pietra, assai preziose e onerose nei villaggi di pianura) è al centro di un sistema che prevede, tra l’altro, una serie complessa di abbeveratoi per il bestiame (laccus e laccbittus in pietra) oltre ai sistemi di irrigazione dell’orto. Naturalmente, il pozzo entra come una delle risorse più essenziali e meno divisibili nei processi di frazionamento ereditario: è del tutto comprensibile come lo sforzo tecnologico ed economico corrispondente fosse tale da non consentire a nessuno rinunce che non apparissero assolutamente obbligate. Col pozzo, la « cultura della divisione » del villaggio agricolo si misura sino in fondo con i suoi paradossi. Quando si divide una corte col pozzo, si può anzitutto cercare di tenerlo per quanto possibile in comune: sono documentati al Vecchio Catasto mappali indivisi in forma di imbuti o corridoi sul cui fondo sta il pozzo. Quando questo non è geometricamente possibile (o conveniente, o desiderato) allora i confini di proprietà passano proprio su quel punto, vero fulcro di linee di forza materializzate dalla divisione. In questo caso, ci si trova di fronte frequentemente ad un « pozzo tramezzato ». Abbiamo documentato situazioni nelle quali il muro di divisione della proprietà si prolunga, sospeso sui vuoto del pozzo stesso, lasciando appena uno stretto varco perché ognuno dei proprietari possa, dalla sua parte, attingere l’acqua. Questo pozzo, originariamente privato, possiamo anche ritrovarlo in fondo ad un vicolo. Rotti i legami di consanguineità tra vicini che godono in comune dell’acqua del pozzo (e questo può avvenire nei volgere di una generazione), il mappale indiviso può finire per diventare collettivo e poi pubblico. Questo passaggio illumina particolarmente i modi concreti attraverso i quali prende forma ed evolve l’architettura popolare del villaggio. Il pozzo in fondo al vicolo è cosa diversa dalla fontana del paese, anche se a volte è (significativamente) costruito con maggiore cura. La fontana pubblica per lo più coincide con i luoghi centrali del villaggio, e li segnala; è collocata di frequente su slarghi importanti che costituiscono talvolta il fulcro, in altri casi il limite di quartieri e vicinati. Anzi, talmente rilevante è il ruolo funzionale e simbolico, la valenza aggregante e sociale di questi luoghi, che da essi prendono nome molti dei vicinati stessi. L’acqua, dunque, aggrega e distingue le parti del villaggio. Questo ruolo lo assume non solo quella, ben controllata, della fontana, ma anche il torrente, il rio poco o nulla arginato.. Dal territorio, l’uso dell’energia idraulica si spinge fin dentro l’abitato, dove un frantoio veniva azionato dal rio che attraversa il paese. In questo caso, però, siamo di fronte ad una struttura urbana più organica, nella quale il rio non è decisivo nel definire i settori. [b]Edilizia rurale: case ricche e case povere.[/b] Qualificare un’abitazione o un tipo d’abitazione come povera o ricca è operazione comune e immediata. Con l’alimentazione, l’abitazione, specialmente nelle società tradizionali, si prende in gran conto per valutare un modo, un tenore di vita in termini di ricchezza e di povertà, anche se sono svariate le conclusioni, soprattutto a seconda che a giudicare sia un soggetto interno o esterno alla cultura di cui il tipo d’abitazione è un elemento. Quest’aspetto ovvio della cultura dell’abitare è spesso trascurato, anche in opere di antropologi, abituati per mestiere a interessarsi della varietà dei modi di vivere e di pensare i propri o altrui modi di vivere. Poco comune è anche l’idea, altrettanto ovvia, che la varietà dei modi d’abitare, specie se giudicata nei termini così comuni di ricchezza e povertà, è misurabile « in funzione » della stratificazione interna alla società studiata. Non a caso s’è detto ricco e povero. Sono termini che nella cultura anche non popolare si usano per qualificare efficacemente abitazioni e modi d’abitare, oltre che generi di vita in generale. E se è vero che si tratta di un giudizio che unisce nozioni diverse come quantità, bellezza, funzionalità, posizione, stile, rifiniture, pertinenze, arredamento, eccetera, bisogna anche considerare che tutte queste nozioni si applicano a case diverse a seconda del senso comune dominante intorno alle caratteristiche positive e negative dell’abitare. Ma per quanto generiche, le qualificazioni di ricca e povera per un’abitazione sono ancora le più comprensive del valore che una società o uno strato sociale attribuiscono al modo d’abitare proprio o altrui. Per ragioni di competenza si tratta qui più particolarmente del Centro-Sud, con profondità temporale che non supera la memoria delle generazioni viventi, cioè con un massimo di circa un secolo e mezzo. Lo scopo è dunque di rendere conto di come la casa sia anche conseguenza e segno di appartenenza a uno dei livelli della stratificazione sociale interna: sia obiettivamente, cioè per caratteristiche soprattutto strutturali e quantitative della dimora osservabili direttamente; sia soggettivamente, cioè secondo il metro di giudizio (sintetizzato principalmente nelle nozioni di ricchezza e povertà) che ne danno i diretti interessati, dall’interno, secondo valori propri. Come è facile immaginare, data la « normalità » della cosa, in generale, le case di paese, rurali — cioè le case dei centri abitati compatti e le case delle piccole zone di habitat disperso — si presentano come plurifunzionali, nel senso che a locali da abitare uniscono locali usati come laboratori domestici,’ magazzini, rimesse, stalle, tettoie, ovili, letamai, bassa corte, pagliai. Sono case per abitare e case per fare lavori per il consumo domestico e per le attività’ agricole, con la conseguenza che case di questo tipo debbano essere provviste di cortili più o meno ampi, e in cui si trovino anche il pozzo e/o la cisterna, abbeveratoi per animali di piccola e grossa taglia e altro ancora. Pur essendo case di paese, esse sono concepite e adibite, oltre che per esigenze tradizionali della vita domestica, anche per attività lavorative del campo e del gregge e alla conservazione dei prodotti, paglia e legna comprese, e quindi anche dei sottoprodotti e dei residui sempre puntigliosamente utilizzati in lavorazioni e usi successivi secondo una sapienza riciclatrice di tradizione millenaria in regime di penuria, soprattutto alimentare. Consideriamo subito che è proprio il tipo di presenza delle parti non adibite prevalentemente ad abitazione, cioè degli annessi rustici, che qualifica una casa dal punto di vista della tipologia sociale dei suoi possessori e soprattutto dal punto di vista della stratificazione sociale. Tale per lo meno è la situazione nelle zone prevalentemente cerealicole del CentroSud. Infatti la casa di paese del contadino che possiede almeno a sufficienza le condizioni della produzione mostra questa sua qualità di proprietario più o meno grosso dei mezzi e degli oggetti materiali della produzione agricola o agropastorale. La casa del bracciante, praticamente nullatenente e quindi servo o giornaliero, di solito è priva di annessi agricoli, e a volte anche di quei laboratori domestici come forno e mola asinaria; la casa del contadino « normale », e tanto più se ricco, ha stalle e cortili, ovili e magazzini che ne mostrano la consistenza di proprietario, e sarà definito in parlata locale con termini come messaiu mannu (contadino grande), messaieddu (contadino piccolo), grana’u pro prietariu (grosso proprietario), meri (padrone) e altri. Il cortile, per esempio, varia da un minimo zero, dato che non di rado può essere assente nella casa del bracciante o del servo pastore, a un massimo d’estensione, e di solito anche di numero (2, 3 cortili), nella casa dei maggiori pro-prietari di terra e di bestiame. Si avrà infatti spesso, in quest’ultimo caso, il cortile rustico con le stalle e gli altri annessi per l’alloggio dei servi e degli animali da lavoro; il cortile con gli ovili e gli altri annessi pastorali (poiché ricordiamo che non era raro, specialmente nel Sud cerealicolo, che il gregge avesse l’ovile nella casa di paese del suo proprietario); il cortile padronale, luogo d’accesso, ordinato e imbellito da alberi più o meno ornamentali e da fiori curati dalle donne di casa. Al cortile padronale si accede di norma attraverso portali che da soli la dicono lunga sulla posizione sociale del padrone di casaIl portale più o meno grande e solenne è tipico del contadino medio-grande, non del, contadino piccolo e tanto meno del contadino povero, del bracciante nullatenente. A ben guardare, infatti, è già il portale o il tipo di accesso alla casa che è l’indice molto chiaro di chi lo usa. E la cosa è sentita tanto ‘che i maggiori proprietari solevano apporre in bassorilievo evidente le loro iniziali nel punto più alto dell’arco del portale; e certi artigiani agiati vi aggiungevano le insegne della loro arte. Ma ad autorappresentarsi così, con queste specie di blasoni esibiti nel punto più visibile della casa, sono solo i proprietari grossi e gli artigiani e i mercanti più floridi, non certo i contadini piccoli e i nullatenenti. Anche i mercanti, appena potevano, vivevano in complessi domestici grandi del tipo di quelli dei proprietari grossi, benché non avessero necessità di annessi rustici. La forza economica e il prestigio sociale dei maggiori proprietari agricoli era evidentemente grande, se a volte mercanti e « signori » tendevano a diventarlo anch’essi, investendo in terre e bestiame e quindi adeguandosi ai loro modi d’abitare. Nella seconda metà del secolo scorso non era difficile diventare massaiu mannu per chi avesse disponibilità anche limitata di denaro liquido con cui acquistare terre all’asta per debiti col fisco. Oppure si badi alla tendenza allo sviluppo in altezza, oltre che in estensione per giustapposizione di locali. Le case dei braccianti erano di solito a un piano, quelle dei contadini non poveri erano di norma a due piani, ambedue con funzioni strettamente abitative: spesso il piano superiore, nelle case dei proprietari piccoli, era adibito a deposito delle derrate per il consumo familiare. A partire dalla seconda metà del secolo scorso le case d’abitazione dei maggiori proprietari tendono ad assumere la forma del palazzotto di tipo cittadino, escono dal quadrilatero del grande cortile padronale d’ingresso, e l’ingresso si fa immediato dalla strada mentre rimangono ingressi distinti per i cortili rustici. Il complesso restava però quello di una casa d’abitazione, magari di tipo urbano, con annessi rustici importanti. La casa tipica della pianura e della collina può dunque definirsi a ragione casafattoria, legata direttamente alle esigenze dell’agricoltura e dell’allevamento ovino brado. Essa ha però la peculiarità di trovarsi all’interno del paese, adiacente ad altre, tanto che spesso risulta essere conseguenza di divisioni successorie di complessi rustici in precedenza più grandi. Questa « tipicità », però, l’essere cioè insieme abitazione e complesso di annessi agricoli e/o pastorali, poteva, come già accennato, essere raggiunta o fallire. Non tutti sono contadini « autonomi », ma è la maggioranza, e non solo a memoria d’uomo ma per quanto si riesce a risalire indietro nel tempo, che non è fatta di « coltivatori diretti », bensì di contadini più o meno dipendenti dai maggiori proprietari. La casa degli uni e degli altri ne dà immediata testimonianza e serve a misurare direttamente il posto che i suoi abitatori occupano nella stratificazione sociale locale. La casa del lavoratore agricolo nullatenente e dipendente mostra il fallimento dell’aspirazione allo stato di contadino (massaiu), cioè alla costituzione di una famiglia-azienda autonoma: è priva di annessi agro-pastorali, e ciò significa che, se egli è lavoratore della terra o pastore, lavora però alle dipendenze di chi anche nella casa mos tra la sua condizione di contadino ricco capace di utilizzare forza-lavoro altrui. La casa del contadino ricco infatti testimonia, per così dire, di un eccesso di realizzazione dell’aspirazione alla costituzione di una famiglia-azienda autosufficiente: la sua grossa azienda ha bisogno in misura notevole e prevalente di « manodopera » salariata extrafamiliare perché possiede le condizioni della produzione (terra, casa, animali, attrezzi) in misura superiore alle possibilità d’uso da parte dei membri attivi della sua famiglia. Nelle montagne prevalentemente pastorali la casa di un pastore ricco di gregge e di pascolo può anche non lasciar vedere la condizione dei suoi abitatori (ma di solito si vede anche lì), ma nelle zone cerealicole, specialmente del Centro-Sud, un contado può essere tale a incominciare da come riesce a congegnare la sua casa-fattoria di paese. Senza casa adeguata, cioè senza magazzini, stalle, pagliai, letamai e altro, non si può essere coltivatori, da nessuna parte, solo che non dappertutto questi spazi rustici fanno parte integrante di una casa di paese, e tanto meno nella forma< urbana » della Sardegna cerealicola del Centro-Sud. Non di rado, e in alcuni centri questa può essere norma, esistono veri e propri rioniceto. Si hanno cioè rioni interi di nullatenenti, con case spesso prive dell’indispensabile cortiletto (deposito di legna, immondezzaio, bassa corte); rioni di contadini medi coi loro annessi cerealicoli (poiché questi raramente sono possessori di aziende agricole e pastorali insieme); e rioni di contadini ricchi colle loro case che possono apparire francamente smisurate: spesso il complesso di una casa-fattoria ricca nel bel mezzo dell’abitato può misurare anche alcune migliaia di metri quadri, e a volte superare anche l’ettaro. Rioni di ricchi, dunque, rioni di poveri e rioni « di chi sta in mezzo ». A voler essere più precisi però, sono soprattutto i rioni poveri che si distinguono con nettezza, probabilmente perché di poveri c’è sempre un numero relativamente abbondante per formare agglomerati omogenei. Spesso risulta difficile discernere queste cose, anche nel recente passato, quando l’agro-pastoralità sarda tipica era ancora quella che è stata forse per millenni. difficile sia perché il disegno urbanistico spontaneo è complicato dalla presenza più o meno sporadica di case di artigiani, di « signori » di edifici privati e pubblici « atipici », da una parte; sia perché, d’altra parte, il tessuto urbano risulta unificato e ingrigito da una tipicità stilistica che almeno esteriormente rende simili tutte le case contadine, con le loro recinzioni cieche di pietre non intonacate; sia perché i vari rioni-ceto non erano sempre puri da intrusioni di case di contadini di stato inferiore o superiore. Specialmente nelle zone prevalentemente cerealicole e nei piccoli cantoni di colture specializzate (vite, ulivo, agrumi) del centro-sud dell’isola, le case rurali risultano di solito piuttosto « grandi », anche quando siano localmente considerate e siano effettivamente da considerare insufficienti i locali adibiti ad abitazione e a laboratorio domestico. Una casa da meno, nel Centro-Sud, era rara, tra i contadini, i pastori e gli artigiani. Le case ricche invece erano soprattutto grandi anche nella parte abitata dalla famiglia. Grandi erano specialmente le cucine, di solito doppie e anche triple. E grandi erano anche i laboratori domestici per il consumo: il locale della mola, il locale per fare la farina e il pane, il locale del forno con la sua cupola esterna intonacata con fango e paglia, lo stesso materiale dei mattoni crudi (làdiri) delle case povere. E come è ovvio, sono le case ricche che per prime mostrano innovazioni di provenienza esterna, fino a « uscire » del tutto da! quadrilatero del grande cortile padronale per proiettarsi verso l’esterno a fil di strada, a perdere la lolla e assumere l’aspettò di palazzotto comodo e anche civettuolo in forme estranee alle tradizioni locali, come il ferro battuto ai balconi e il bugnato in facciata. Salvo però il portale, che resta monumentale, ma non è più a&esso principale alla casa del padrone, bensì alla zona degli annessi. La cultura abitativa sarda dunque apprezza molto la quantità della casa, anche quando una parte più o meno grande rimanga inutilizzata nella vita quotidiana. Per questo la casa sarda tradizionale (e gli ibridi attuali) non è mai finita, ma è pensata in modo che sia aumentabile per giustapposizione di locali e per sviluppo in altezza. Casa ricca e bella risulta essere principalmente la casa grande. E di conseguenza non è ritenuta di gran valore una casa piccola. Il recinto, la corte Tutta la costruzione dell’habitat regionale è dunque profondamente segnata dalla bassa densità della presenza umana, da una percepibile forma di precarietà. Il che non significa naturalmente che gli oggetti edificati non possiedano, singolarmente o come « tessuti », una riconoscibile compiutezza, e frequenti espressioni di vera potenza costruttiva. È però vero, quasi senza eccezioni, che la casa non rende « domestico » il territorio e che ha un bisogno praticamente imprescindibile di relazioni con altre case, di costituire un universo integrato ma anche contrapposto allo spazio del lavoro. Le 120.000 case, che possiamo presumere costituissero a metà Ottocento il patrimonio abitativo di quella Sardegna « interna » e « popolare » di cui parliamo , sono una presenza straordinariamente rada negli spazi dilatati dei saltus regionali. Perciò ci è parso che occorresse partire, per comprenderne le ragioni, proprio da questa presa labile dell’abitazione sul territorio. Abitare in Sardegna rappresenta un punto di equilibrio particolarmente difficile proprio per il fatto di collocarsi nel contesto della povertà rurale, con una preponderanza dell’autoconsumo domestico, quindi con fortissimi vincoli all’espansione dell’economia familiare, all’investimento di quote significative di risorse nella sfera abitativa, per il controllo e la trasformazione del territorio. Già gli inventari pisani del Trecento ci raccontano questa architettura popolare senza qualità: « una casa sardesca di 4, 6, 9 travi » 2 recitano gli elenchi fiscali dei puntuali emissari di Pisa, evocando ai nostri occhi una sequenza indifferenziata di unità cellule misurabili nel più elementare dei modi, la trave appunto. La casa « sardesca » continuerà, nei 500 anni che seguono quei censimenti, a svolgere in un numero illimitato di varianti il tema dell’uso intelligente della scarsità. In questa varietà si riconoscono non cesure nette, contrapposizioni, bensì gradualità, equilibri che si spostano in genere per sfumature tra i due grandi poli della pianura e della montagna, determinando ibridi, compresenze. La casa consente una lettura dal Vivo dei livelli di equilibrio, della irriducibilità della casistica a tipi rigidi, della mutevole mescolanza di elementi solo in astratto ascrivibili al mondo dei pastori o a quello dei contadini. Del resto, gli aspetti estremi dell’habitat regionale esaltano le ricorrenti coppie di opposte chiavi di lettura: spazio dell’abitare e spazio del lavoro, come pure autosufficienza/ integrazione (o autarchia/dipendenza) e ancora individuale/ comunitario, introverso (difensivo) estroverso (di relazione), urbano/rurale, sino alla classica polarità maschile/femminile, e via enumerando. I geografi hanno da tempo elaborato preziose tipizzazioni che riconducono a categorie e classi questa multiforme varietà di case rurali delle diverse aree regionali. Tra tutte, basti citare la classica individuazione compiuta 50 anni orsono da Le Lannou dei « tre grandi tipi di casa rurale E...] la casa montana sviluppata in altezza E...]- la casa a cortile chiuso nella pianura e negli altopiani coltivati; una casa molto più semplice [...] a nord ovest dì una linea immaginaria da Cabras al golfo di Olbia » . O, ancora, la minuziosa casistica elaborata da O. Baldacci nell’ultimo dopoguerra, che fotografa un attimo prima della più recente « catastrofe » dell’insediamento la dislocazione e i caratteri della « Casa rurale in Sardegna ». L’economia di questi approcci ha piuttosto lasciato in ombra (per equilibrio espositivo o per scelta di metodo) i caratteri evolutivi del tipo edilizio, le relazioni tra gli oggetti e la complessa stratificazione della società di cui costituiscono la proiezione fisica nella dimensione quotidiana, la profondità storica capace di far luce sugli aspetti della trasformazione dell’abitare. Rimandando dunque a quelle grandi classificazioni come ad un impianto generale di lettura, ci si può proporre il compito di scavare intanto nelle pieghe degli oggetti e delle loro forme di rappresentazione per rintracciarne alcune più diversificate modalità formative e costitutive. Il recinto. Una chiave di lettura che attraversa molte forme della casa rurale regionale (probabilmente la quasi totalità) è la sua relazione col recinto. Il recinto compare nei documenti giudicali come forma concreta di appropriazione dello spazio, con riferimento prevalente allo spazio agrario, alla gestione collettiva dei campi e del pascolo praticata dalla comunità di villaggio. la vidazzone, (« habitacione » nei do-cumenti giudicali del Trecento) che evoca un’immagine così estesa ed insieme riduttiva appunto dell’abitare: è come se nel villaggio la specializzazione e differenziazione delle funzioni elementari fosse così poco evoluta che gli spazi del lavoro quasi coincidono con lo spazio umanizzato e, appunto, abitato. Questa idea totalizzante di recinto è in certo modo ribadita se la si esamina al polo opposto: l’appropriazione più individuale, quella che compie il pastore recingendo nel saltus il ricovero per sé e per il gregge. Qua possiamo rintracciare una delle condizioni davvero « originarie » dell’abitare: in un qualche punto il recinto di pietre si piega, ed enuclea un basamento (circolare per lo più) che si specializza come riparo, funzionando da supporto ad una copertura leggera. Ma attenzione: questo archetipo di casa è anzitutto un ricovero di attrezzi, dunque una specializzazione delle strutture per il lavoro del pastore, nella quale l’abitare è sostanzialmente una funzione derivata. La pinnetta pastorale costituisce certamente un polo estremo nella casistica delle relazioni casa-territorio: il meno specializzato, come già osservato, e anche probabilmente il più arcaico, se è vero che è l’unico che utilizzi prevalentemente la linea curva per l’impianto murario dell’abitazione, ovvero la modalità di edificazione più vicina all’economia del recingere una porzione di suolo col minimo sforzo. Del resto, la sua parentela con la capanna del villaggio nuragico è così evidente da suggerire continuità storiche concrete, e non semplici analogie morfologiche . La conservatività, la resistenza alla trasformazione dell’habitat ‘pastorale è tuttora simboleggiata dall’uso persistente del sistema recintopinnetta, nonostante i molti piani di sviluppo e razionalizzazione che si sono proposti di cambiare l’assetto della pastorizia sarda. La corte. Se il recinto-capanna umanizza e, in qualche modo, urbanizza la campagna, si può dire che il recinto-corte « ruralizza » il centro abitato. La casa a corte esprime, nelle sue innumerevoli varianti, la ricerca del livello probabilmente più differenziato e complesso nella gerarchia dell’abitare che i contesti regionali abbiano saputo realizzare, compatibilmente con lo status e le risorse dei soggetti sociali che le costruiscono e le usano. Quasi niente sembra accomunare più gli imponenti perimetri murati delle grandi case a corte delle zone cerealicole del Sud con i muretti a secco che delimitano i recinti pastorali. Eppure alla radice si può ancora riconoscere l’elemento strutturale dell’architettura popolare delle campagne , la centralità dello spazio racchiuso, circoscritto dal recinto , che può persino fare a meno dell’edificio senza cessare di essere una forma di architettura, un modo di abitare il territorio. Nell’apparente paradosso per cui il cuore della casa è proprio lo spazio vuoto (la corte, che dà il nome a quella specifica tipologia di casa) sta la spiegazione dell’altra costante della corte stessa; l’addossarsi dei fabbricati al recinto. Essenziale è sempre salvaguardare il carattere accorpato, l’unità della corte — pur nelle sue possibili articolazioni: gli edifici assecondano il recinto anche dove questo viene piegato a formare, nelle grandi case-fattoria, la linea di separazione tra la corte 4 civile » e le corti a rustiche ». Il tabù dell’introspezione, comune a tutti i tipi corrispondenti dell’area mediterranea. Il recinto è a questo punto un margine murato perfettamente impenetrabile tra lo svolgersi dei percorsi perimetrali e lo spazio interno. Le relazioni interno-esterno sono concentrate nell’unico varco di cui è dotata ogni corte e questo punto singolare (il portale) non a caso si carica delle più diverse valenze simboliche ed espressive. L’idea e la pratica dell’affaccio, la proiezione dello spazio familiare verso lo spazio pubblico, resta fondamentalmente estranea alla cultura della corte; e infatti, non solo il recinto non prevede affacci, ma lo stesso portale è piuttosto correlato all’atto del passaggio. Se costituisce una forma di esibizione, il modo è assolutamente indiretto e mediato dall’architettura. L’assetto introverso implica dunque che le bucature siano rigorosamente rivolte all’interno del recinto: sulla corte si aprono, in un’ampia gamma di soluzioni, tutti i fabbricati che le appartengono, a cominciare da quelli residenziali. Fra questi ultimi e il cortile chiuso è interposto spesso un loggiato (folla) funzionalmente rinomato per il suo ruolo di regolatore climatico e morfologicamente così forte da caratterizzare, con la sua presenza, i fabbricati residenziali della casa a corte. La corte, in quanto sistema complesso di spazi aperti, coperti, recintati, chiusi, di attrezzature, di funzioni, può essere descritta a partire da diversi livelli e punti di vista, e tutti concorrono a metterne a fuoco struttura e significato. Anzitutto in relazione al ruolo sociale ed economico dei suoi utenti, alla natura e alla strumentazione del loro rapporto di proprietà e lavoro con la terra e i fattori produttivi, alla quantità delle derrate trattate e immagazzinate (se strettamente legate al consumo familiare o destinate allo scambio), alla presenza o assenza di gioghi di buoi, carri, bestiame, ecc. Inoltre, la corte può essere trattata come luogo (mutevole eppure costante) della produzione e riproduzione dei rapporti sociali e familiari-parentali, delle relazioni patrimoniali, della formazione dell’ambiente di vita in uno con l’organizzarsi dei nuovi nuclei familiari. Ancora, se ne può parlare come articolazione fisico-funzionale di spazi, fabbricati, attrezzature — chiave della vita domestica e del suo inestricabile intreccio con l’attività produttiva col metabolismo a cui sono sottoposti i prodotti della terra e (in minor misura) dell’allevamento, smistati, immagazzinati, conservati, trasformati, e naturalmente anche consumati, quando non sono destinati allo scambio. Nella casistica più diffusa lo spazio aperto tende costantemente a specializzarsi e dividersi in una area « civile » ed una « rustica ». Tuttavia, sono solo le corti mediograndi (e quindi, una minoranza di casi) che realizzano questo schema in termini di separazione fisica, ottenuta spesso con un innesto trasversale di corpi di fabbrica. Nella gran parte delle case si tratta di un’articolazione non rigida, e comunque legata ai materiali delle pavimentazioni, o a recinti interni spesso dotati di labilissima consistenza. Del resto, tutto l’universo della corte sembra svolgersi per compenetrazione di ambiti integrati e distinti, ciascuno con le sue aree e suoi propri assi. La sfera dell’accesso, imperniata sul portale, prevede ricoveri, ripari, fabbricati per il rimessaggio di attrezzi e lo stoccaggio delle derrate secondo un asse che conduce però direttamente dalla sfera del lavoro a quella abitativa, e che ha come terminale il loggiato. Quest’ultimo è a sua volta asse della dimensione domestica, cui si appoggiano le cellule (domus), i vani residenziali, pochi o molti non importa. Tra questi, la cucina appare spesso geometricamente periferica ed « estrema », proprio perché costituisce un luogo di relazione e scambio tra la sfera abitativa e quella della lavorazione-trasformazione delle derrate. Sede del metabolismo domestico, luogo del focolare, la cucina è legata funzionalmente e simbolicamente alla macina e al forno: per la cucina passa l’asse degli spazi delle lavorazioni che hanno sede nella corte, e che si proiettano verso le parti « rustiche » (i ricoveri delle bestie, l’orto...), cui è fisicamente contigua. Infine, da qualche parte nella corte sta talvolta (spesso) anche il pozzo; così, la casa-fattoria realizza al massimo grado la sua dimensione di universo integrato e autosufficiente, dove persino l’acqua, risorsa scarsa per eccellenza, è domesticata e resa disponibile. L’antica Casa del Campidano Generalmente le case rurali sarde sono composte da una parte abitativa e dagli annessi rustici (magazzini, stalle, letamai, cisterne, abbeveratoi, etc.), con marcate differenziazioni a seconda della posizione sociale e del contesto produttivo di appartenenza del proprietario. Si diversificano notevolmente anche a seconda dell’ area geografica (casa campidanese, montana, a palattu). Sono in pietra o in mattoni crudi, solitamente addossate le une alle altre, spesso non intonacate all’esterno. I tetti sono di tegole e il soffitto a incannucciata sorretto da travature di legno, a uno o a due spioventi. I pavimenti sono spesso in terra battuta o lastricati con grandi pietre piatte. Le pareti interne sono intonacate con argilla e calce, o con fango e paglia e per lo più dipinte a calce, con colori tendenti al rosa e al giallo. Presentano, di solito, un solo ingresso con portone di legno. Con l’esclusione dell’asinello legato alla mola granaria, cui si destina un vano o un angolo della casa, in Sardegna difficilmente si hanno casi di coabitazione con animali da lavoro e da cortile. [b]Elementi strutturali della casa rurale.[/b] FONDAZIONI Sono realizzate a secco con ciottoli di fiume di dimensioni consistenti legati tra loro per mezzo di malta argillosa. Il passaggio dalla fondazione in pietra al muro in mattone crudo è scandito da un ricorso in mattoni cotti affiancati e disposti col lato maggiore secondo la lunghezza della muratura. MURATURE Il muro veniva realizzato con l'impiego di mattoni di "ladiri" disposti a ricorsi successivi in modo tale che i giunti tra blocco e blocco di un ricorso risultino sfalsati rispetto a quelli del ricorso successivo ed a quelli del ricorso precedente; in questo modo si garantiva il comportamento unitario della muratura. I mattoni venivano collegati tra loro per mezzo di malta di argilla; gli intonaci invece ve vivano realizzati con malta di argilla vagliata con interposta paglia di fieno allo scopo di ottenere un miglior collegamento. Si otteneva così. una muratura praticamente monolitica in quanto costituita esclusivamente da materiali tra loro omogenei. Nelle murature, le aperture di piccole luci venivano risolte con l'ausilio di architravi realizzate con tronchi di ginepro o di altre essenze resistenti; su di esse riprendeva poi la normale muratura in mattoni crudi. Le aperture di grande luce venivano invece risolte con piattabande o archi. E' stato riscontrato un raro esempio di portale architravato con tronchi di ginepro . Quando le condizioni economiche dei proprietari della casa lo permettevano, nel mezzo dell'apparecchio murario in mattone crudo veniva usato il mattone cotto per realizzare le parti più sollecitate della muratura quali cantonali, piedritti, archi e piattabande. Si introduceva così un grave motivo di discontinuità nella muratura a causa delle differenti caratteristiche tecniche (resistenza, coefficiente di dilatazione, ecc.) esistenti tra i due tipi di mattoni; infatti partendo dalle lesioni che puntualmente si verificavano in questi punti di discontinuità gli eventi esterni intraprendevano la loro opera disgregatrice dell'edificio. SOLAI- Non si è riscontrato alcun caso di solai a volta in pietra o in laterizio cotto. Tutti i solai infatti, realizzati con legname reperibile in zona, sono costituiti da tronchi opportunamente distanziati aventi funzione portante e da un tavolato gravante su di essi avente funzione di pavimento. Solamente verso la metà del XX secolo si sono realizzati, per coprire strutture murarie in ladiri, solai in cemento armato misto con laterizi e travetti prefabbricati TETTI tetto di questa casa rurale è essenzialmente costituito da: a) grossa orditura formata da tronchi di legno di essenza dura disposti ad intervalli di circa tre metri e diretti secondo il lato maggiore del locale da coprire; b) piccola orditura in travicelli lignei; c) incannucciata; d) manto di copertura con coppi alla sarda collegati all'incannucciata con malta di argilla e paglia o con malta di calce e sabbia. Il colmo del tetto è quasi sempre realizzato grazie ad un semplice tronco di ginepro o di altra essenza dura avente particolare conformazione e disposto in modo tale da svolgere le funzioni di una capriata che sorregga un tetto a due spioventi. Per realizzare il colmo del tetto veniva usata anche la capriata palladiana utilizzando tronchi di legno lavorato; spesso però veniva realizzata secondo concezione statica errata col "monaco" poggiante sulla "catena" e senza essere collegato a quest'ultima per mezzo della "staffa Tutta l'orditura e l'incannucciato, poichè non esiste controsoffittatura, è visibile dall'interno del vano; ciò riesce a tipizzare maggiormente questo tipo di abitazione. INTONACI -Una cosa che viene subito percepita di questo tipo di abitazione è la incompletezza della superficie esterna intonacata. L'intonaco esterno infatti veniva usato con una certa parsimonia: - a scopo protettivo solo nella facciata esposta alla azione disgregatrice dei venti dominanti, - a scopo ornamentale nelle facciate fronte strada e in quelle prospicienti il cortile. Abbondano i casi di edifici a due piani in cui una facciata è intonacata al piano terreno, ma non al piano sopraelevato. Dobbiamo ammettere che ciò riesce a tipizzare ancor più questi edifici. Questi casi da noi riscontrati sono tanto numerosi da non poter essere spiegati con la tesi semplicistica del mancato completamento delle finiture della costruzione. Per spiegare questo fatto bisogna tener presente che la casa in ladiri è una manifestazione di una realtà ed economia povera. Infatti il lavoro di costruzione della casa rurale veniva eseguito in economia dal proprietario e dai suoi familiari; da gente cioè che per improvvisarsi muratore doveva distrarre ore lavorative da quelle che erano destinate ai suoi impegni abituali (lavori agricoli, cura del bestiame, ecc.). Ne consegue perciò che fosse ritenuto indispensabile realizzare l'intonaco del piano terreno di una certa facciata: ciò serviva infatti, a causa del fatto che l'intonaco su ladiri diventava (per la omogeneità dei due materiali) una struttura monolitica, a rendere più solido un muro che doveva sostenere uno o più piani sopraelevati; ne derivava quindi un miglioramento della statica di tutta la costruzione. Non altrettanto importante per la statica di tutta la costruzione sarebbe stata la realizzazione del l'intonaco al piano sopraelevato. E' quindi logico che in un regime di rigida economia si intonacassero solo le facciate dei piani superiori particolarmente esposte all'azione disgregatrice dei venti dominanti. Va sottolineato ulteriormente quanto siano caratteristiche queste case in ladiri con le pareti esterne non intonacate e con i mattoni crudi in vista. Queste considerazioni appena esposte sono ampiamente confermate da tanti esempi di abitazioni ancora visibili . SERRAMENTIHanno un ruolo molto importante nella definizione della tipologia estetica di qualsiasi forma di "architettura minore". Questa importanza è ancor più accentuata nella casa rurale campidanese che, per quanto è risaputo è molto sobria e senza alcun arricchimento estetico e formale. Sono tutti realizzati con tavole ben stagionate di legno massiccio, non molto lavorate,e cori essenze piuttosto resistenti e durature (noce, castagno, ecc.), attualmente molto costose, ma che prima erano facilmente reperibili nel mercato sardo anche se non sempre nelle foreste viciniori . Molto interessante è anche l'armamentario di chiusura tutto realizzato in ferro forgiato da fabbri ferrai locali che non disdegnavano alcune ricercatezze stilistiche . Spesso dal serramento sì riusciva a cogliere il livello economico della famiglia che abitava in una certa casa. Infatti un passo carrabile chiuso con una "ecca" (cancello in legno realizzato con stecche di ginepro o di olivastro) denotava che per, mezzo di esso si accedeva ad una casa di gente in condizioni economiche piuttosto misere. Al contrario un bel portone con doghe in legno pregiato e tanto di iniziali scolpite sulla chiave dell'arco de "su pottabi" , applicate in legno sullo stesso portone, facevano capire inequivocabilmente che per mezzo di esso si accedesse a "sa prazza" e alla casa di qualche persona in condizioni economiche piuttosto agiate. Struttura - Locali - Materiale da costruzione Le tipiche case rurali abitate da contadini e pastori stanno ormai scomparendo progressivamente, per dar posto a fabbricati civili e moderni. La rustica abitazione veniva costruita in mezzo ad un tratto di terreno alquanto esteso al fine di avere locali vari annessi. Il fabbricato, di aspetto e simmetria medievale, divideva in due il terreno scelto per l’opera: una parte, e precisamente quella pertinente il prospetto della casa, prendeva il nome di “prazza” (piazzale antistante); l’altra retrostante veniva chiamata “cottilla” ossia cortile. I muri perimetrali si costruivano in pietrame non lavorato con malta di fango (“ludu nieddu”); per i muri interni venivano adoperati mattoni crudi (“làdri”) fissati con la stessa malta comune. Il pavimento dei vani era fatto in terra battuta con uno strato superficiale di malta composta di argilla, paglia e sterco bovino. L’impasto veniva messo in opera e spalmato a mano libera da una donna chiamata “sa ludàia”. Tale pavimento, detto “prant’e manu”, veniva rifatto exnovo o riparato annualmente. La malta per gli intonaci si preparava con l’impiego di argilla biancastra e paglia (“ludu cun palla”). Per imbiancare le stanze si adoperava un liquido bianco detto “axrìdda” che si otteneva sciogliendo in acqua l’argilla biancastra. Locali Interni Davanti alla facciata della casa si presentava “Su stàbi” detto anche “Lolla” (stalla per ricovero bestiame), con due o più archi a tutto sesto oppure a trabeazione lignea. Alcuni vani avevano l’apertura (porta o finestra) che dava alla stalla; quello dell’ingresso principale era formato da un ampio andito detto “saba manna”; a destra di questo, si trovava “sa camber’‘e crocài” (camera da letto) e alla sinistra “s’apposèntu bellu” (stanza di rispetto). Un’altra stanza, sempre con ingresso dalla stalla, era adibita per i lavori di tessitura col telaio sardo (“sa dom’‘e tèssi”). Dietro “sa sàba manna” vi era un piccolo andito detto “su passarizzu” alla cui sinistra si trovava “sa coscina” (cucina). Il fuoco si faceva al centro della stanza su uno spazio detto “saforrèdda”. In un piccolo vano, a destra di “su passarìzzu”, si teneva “sa moba” (la macina sarda); in questo vano vi era anche la scala d’accesso al piano superiore. Il piano sopraelevato detto “su sobàriu” o “su stèrridu” era formato da uno o più vani di cu uno, il centrale che veniva chiamato “su sobàriu mannu”, più ampio degli altri. La copertura era costruita in tegole sarde posate su un canniccio sostenuto da grezzi tronchi d’albero. Al centro della travaturà andava collocato un robusto tronco arcato sul quale poggiavano gli altri di minore resistenza, questo tronco era chiamato “su quàddu”. Locali Annessi all’Abitazione Nel piazzale anteriore, addossato ad un lato della stalla, vi era il pagliaio (“s’om’‘e sa pàlla”); inoltre non mancavano il pozzo (“sa funtàna”), il letamaio (“su muntroàxiu”) e la provvista di legna da ardere (“su cidrùxi”). Il piazzale era recintato con muri a secco. L’ingresso, con cancello di legno a stecche detto “gecca de costàllus”, era situato di fronte alla facciata dell’abitazione. Nel cortile si trovavano i seguenti locali: “su stabèdd’‘e su forru” (loggetta del forno), “s’om’‘e su pròcu” (porcile), e “s’omu de Is puddas” (pollaio). In un angolo del cortile, separato dagli altri locali, si teneva “s’accorràzzu”, ossia la latrina. Quest’ultimo era costruito a mo’ di capanna e cioè con pali piantati per terra e ricoperti con frasche o erba palustre. I cortili più a centro dell’abitato (“mesu idda”) erano, come i piazzali antistanti, recintati con muri a secco. Quelli di periferia invece erano chiusi con siepe viva di fico d’India o di rovo. Ambienti: 1) “Sa prazza manna” (piazzale antistante) 2) “Su muntroàxiu” (letamaio) 3) “Su cidràxi” (catasta di legna d’ardere) 4) “Sa funtàna” (pozzo) 5) “Su stàbi” (stalla ricovero per il bestiame da lavoro) 6) “S’apposentu bellu” (stanza di rappresentanza o salottino) 7) “Sa saba manna” (sala centrale della casa) 8) “Sa cambera de croccài” (camera da letto) 9) “S’om’‘e tessi” (stanza del telaio) 10) “S’om’‘e su pegus de moba” (locale ricovero dell’asinello) 11) “S’om’‘e sa moba” (stanza della macina sarda e scala di accesso al solaio, “su sobariu”) 12) “Su passarizzu” (andito) 13) “Sa coxìna” (la cucina con al centro “sa forrèdda”) 14) “Sa cambarèdda” (piccola camera da letto) 15) “S’om’‘e sa palla” (pagliaio) 16) “S’om’‘e is carràdas” (cantina) 17) “5 ‘om’‘e su pani” (dispensa) 18) “Su stabèdd’e suforru” (loggetta del forno) 19) “Su forru” (il forno) 20) “S’om’‘e is puddas” (pollaio) 29 21) “S ‘om’‘e su procu” (porcile) 22) “Intràd’‘e carru” (passo carraio) 23) “S’ottu” (orto o cortile) 24) “S’accorràzzu” (latrina) Sino a qualche decina d’anni fa molte famiglie contadine abitavano ancora in vecchie case rurali, alcune delle quali interamente costruite in mattoni crudi (“!adri’. Tali fabbricati, che peraltro erano senza fondamenta, avevano il pavimento e l’intonaco di fango argilloso per cui, ogni anno, era necessario provvedere ai lavori di restauro e di abbellimento. Il pavimento si screpolava facilmente anche perché a quei tempi si usavano “Su ludu friscu” (Restauro e abbellimento annuale della casa) scarpe chiodate “crapittasfarradas”. Altrettanto avveniva per l’intonaco; bastava toccano appena con la spalliera di una sedia o rasentarlo con un tavolo perché si disfasse e cadesse giù a pezzi. La malta comune usata per la ricostruzione o riparazione del pavimento, era così composta: “Terra bianca, palla e schivorìa de bòi” (argilla bianca e paglia impastata con escrementi di animali bovini). L’esecuzione dei lavori di riparazione o di ricostruzione ex-novo del pavimento, era volgarmente detta “Prant’e manu”, e ciò per il fatto che la malta veniva stesa e lisciata con il palmo della mano. La riparazione, invece, dei “murus scroxiobcius” (guasti all’intonaco) era detta in gergo locale: “arrangidi is’iscòncius”. Una volta terminati i lavori di “Fant’e manu e Iscòncius”, vi era quello di imbiancare le stanze, lavoro questo detto: “Axriddài”. Il liquido bianco detto “axrìdda” o “argilla”, si otteneva sciogliendo nell’acqua un tipo di argilla bianca che si estraeva da cave esistenti alla periferia dell’abitato dette “i’foràdas de sa terra bianca”. Tale argilla sostituiva la calce. Questo lavoro di restauro e di abbellimento che prendeva il nome di “hìdufriscu” veniva eseguito in primavera, alcuni giorni prima della festa in onore di Sant’Isidoro, patrono dei contadini, oppure alla fine di agosto, prima del due settembre, ricorrenza di S. Crispo, il Santo festeggiato dai servi agricoli e dalle domestiche, “tzaraccus e tzaràccas massdias”. [/QUOTE]
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