Manlio

Nuovo Iscritto
Agente Immobiliare
Iniziamo la storia delle case sarde dalla Campidanese, architettura recente ma nello stesso tempo suggestiva. Faremo in seguito un salto nel passato con i famosi Nuraghe.

Storia delle case tradizionali a Santa Giusta
Le tipologie della cosiddetta "architettura minore" delle varie zone agro-urbane in
cui storicamente è stata sempre suddivisa la Sardegna sono fortemente
caratterizzate dalle seguenti componenti: - "modo di vivere" dei fruitori degli
edifici; - ceto sociale dei fruitori degli edifici; - costo e reperibilità in sito dei
materiali costituenti lo stabile. Tenendo conto di ciò si può ben capire come detta
architettura, ed in particolar modo la casa rurale, abbia conservato intatti sino alla
fine della seconda guerra mondiale quei caratteri personalizzanti ed originali che
sono propri dei centri storici dei nuclei abitati ad economia prevalentemente
rurale esistenti nella nostra isola. E' ovvio che in un'economia povera come quella
della Sardegna rurale, i materiali da costruzione di una casa d'abitazione
dovessero essere reperiti possibilmente in sito o comunque in zona; ciò allo scopo
di ridurre al minimo l'incidenza del loro costo di trasporto sul costo di costruzione di
tutta la casa.
A questo proposito giova ricordare che il lavoro di costruzione di una casa rurale
veniva eseguito in economia dal proprietario e spesso durava anche alcuni anni.
Quanto detto non è valido per la cosiddetta "architettura superiore" (chiese di
primaria importanza, abitazioni nobiliari, luoghi in cui si amministrava la giustizia,
ecc.); infatti per realizzare queste opere considerate "di un certo livello" si riteneva
giustificato l'onere economico dell'acquisto e del trasporto in sito di materiale da
costruzione ritenuto pregiato (per maggior resistenza ai carichi ed agli agenti
atmosferici e per motivi estetici) ed il conseguente asservimento a determinati stili
architettonici di importazione.
Il recupero e riuso dei centri storici è un tema attualmente molto sentito. e
dibattuto. Dove viene realizzato consente non solo una valorizzazione del
patrimonio artistico-culturale della comunità, ma anche un notevole
risparmio economico allo erario pubblico in un momento in cui la carenza
d’alloggi è notevole in tutta la nazione.
Le case in “ladiri” del Campidano rappresentano una tipologia tra le più
caratteristiche e tipizzanti del patrimonio culturale sardo. Al momento,
attuale, a causa dell’inefficienza della legislazione urbanistica vigente e della
carenza delle leggi che tutela no le bellezze ambientali, esse sono destinate
a scomparire.
Poichè credo vivamente nella salvaguardia e nel riuso di qualunque centro
storico e particolarmente, in quanto improcrastinabile, in quella del recupero
dei centri urbani con edilizia in “ladiri”; ho ritenuto opportuno realizzare
questo studio tenendo rigorosamente conto di quanto già scritto in proposito
da studiosi autorevoli, ma in particolar modo facendo sopralluoghi in sito,
fotografando, rilevando e intervistando la gente che in queste case è vissuta
o addirittura vive ancora.
Nel descrivere l’architettura del territorio, anziché seguire il filo cronologico
dell’evoluzione storica, si è scelto di partire dalla configurazione moderna e
contemporanea dell’insediamento, usando ciò che abbiamo sotto gli occhi
come palinsesto, sul quale cerchiamo di leggere le tracce e le ragioni delle
trasformazioni e delle vicende che vi si sono stratificate nel tempo. In questo senso,
il « grado zero» non sarà proprio l’oggi, ma un qualche momento di 150 anni fa
all’incirca, quando la Sardegna viene percorsa in lungo e in largo (e per la prima
volta nella sua storia post-romana) non solo dai pastori, dai commercianti o dalle
truppe, ma da viaggiatori, cartografi, studiosi, operatori tecnici delle sezioni di
strade e ponti del Genio.
Ogni ragionamento organico e strutturato che parta dalla forma del territorio e
dalla sua costruzione antropica, dalla valutazione puntuale della sua consistenza
fisica, dei rapporti dimensionali tra l’edificazione e l’agro, tra insediamento e
pertinenze territoriali, non può che prendere le mosse dai primi decenni
dell’Ottocento. questo infatti il momento nel quale, rispetto alle faticose (benché
spesso sorprendentemente ricche) opportunità di ricostruzione degli eventi e di
scandaglio sui dati offerti dagli archivi più disparati, siamo messi in un brevissimo
volger d’anni di fronte ad elaborazioni mature, a ricerche sistematiche e divulgate
mediante pubblicazioni a larga circolazione ed a materiali statistici e cartografici
con carattere di completezza, confrontabilità, rigore. Questi frutti (un po’ tardi, ma
di buon livello) della cultura illuministica ed enciclopedistica sono tutti in varia
misura orientati dall’esigenza di « fare il punto » sullo stato del territorio per
formalizzare i rapporti giurisdizionali e di proprietà, in vista della ridefinizione
generale delle relazioni stato-comunità-individuo-terra . Nell’economia di un
discorso sulla struttura dell’insediamento selezioneremo questi materiali a partire
dall’immagine cartografica.
In questo senso la rappresentazione dell’architettura del territorio ci appare,
insieme, un’astrazione tecnica ed una sintesi concettuale straordinariamente
efficace ed espressiva. Le finalità topografico-catastali del loro lavoro di
cartografi, l’esigenza di fondare la rappresentabilità del territorio, di fornire la
maglia di riferimento a larga scala, nella quale inserire i sistemi di individuazione a
maglia stretta (soprattutto la fitta rete dei segni della proprietà), producono
un’immagine destinata a durare come raffigurazione emblematica.
Sulla carta si disegna la trama essenziale dei centri e delle loro relazioni (la rete dei
percorsi, a quello stadio fortemente equipotenziale e pochissimo gerarchizzata),
una selezionata individuazione dei corsi d’acqua, qualche elemento del rilievo
(più annotazioni che impianto sistematico).
Le convenzioni grafiche adottate (in particolare la rappresentazione dei centri
come sistema di isolati circoscritti dai percorsi ed appena evidenziati con
l’ombreggiatura) ci restituiscono la « silenziosità » di quell’architettura,
l’opposizione fondamentale fra un nucleo compatto, luogo esclusivo dell’abitare,
ed un territorio sostanzialmente vuoto di segni del costruito, luogo del lavoro che
non lascia impronte forti, immediatamente registrabili dal cartografo.
Ci raccontano ancora la trama larga dell’antropizzazione, il controllo capillare ma
precario che l’insediamento prevalentemente accentrato (o, più raramente,
disperso) esercita sul territorio, nuclei piccoli (più o meno, s’intende) a presidio di
grandi estensioni.
Infine, assieme a queste costanti, documentano alcune variabili: può trattarsi di un
sistema di partizioni comunali più fitte (come l’addensarsi di centri con territori di
pertinenza relativamente piccoli ) o, a scala dal singolo comune, di preesistenze
rilevate (le molte chiese in campagna, i pochi casali, i nuraghi). Sono le eccezioni
alle regole dell’insediamento che segnalano anomalie storiche, persistenze di
habitat per lo più scomparsi, di rapporti più capillari o diversamente strutturati tra
le comunità e la risorsa- suolo, tra abitazione e territorio.
Da queste differenze possiamo risalire (come se utilizzassimo dei fossili-guida) al
tempo che precede il nostro « grado zero », al tempo lungo se non immobile della
vicenda rurale sarda. Dare spessore temporale e senso storico agli oggetti edilizi
dei villaggi ed ai molti segni presenti sul territorio significa indagare le relazioni tra
la conservatività della struttura agraria e pastorale , il filo dell’inerzia che si dipana
attorno alla costante della « povertà mediterranea » da un lato, e, dall’altro, la
rottura trecentesca, quella sorta di catastrofe originaria, nella quale il movimento
accelerato sul piano istituzionale e diplomatico-militare si coniuga con le vicende
profonde della società e dell’economia per cambiare radicalmente l’assetto e la
forma fisica dell’habitat.
Il viaggiatore contemporaneo che percorre la Sardegna non può non leggere
ancora i paesaggi regionali nella chiave della bassa densità di presenza umana e
dell’uso estensivo della risorsa-territorio da parte della comunità insediata. E le
stesse vicende dell’occupazione edilizia delle coste, tanto più eclatante perché
svolta sullo sfondo da grandi solitudini secolari, si sono realizzate in modo così
totalizzante ed eversivo proprio in quanto non supportate o contrastate da una
significativa costruzione locale del territorio. Cosicché oggi si può ancora
ammirare uno spettacolo insolito, presumibilmente transitorio: la compresenza di
paesaggi contemporanei e arcaici, del consumo intensivo e della presenza labile,
talvolta indistinguibile, dell’insediamento.
Sulle tracce di questa precarietà, che se ben analizzata si rivela per nulla univoca,
ricca di improvvisi addensamenti e rarefazioni, è possibile recuperare una gamma
inesauribile di oggetti, dal più ingombrante al più discreto, che consentono di
ricostruire in qualche caso il reticolo complessivo degli usi di alcune porzioni di
territorio.
La consistenza fisica documentabile di paesaggi che analizziamo ha, come già
visto, un riferimento di sfondo (la Sardegna medioevale e moderna) ed un « grado
zero » . Appunto 150 anni fa si ponevano le premesse per quel sistema di
trasformazioni e persistenze che ci fa leggere il territorio come insieme
contraddittorio ma integrato. Il padroneggiamento incompiuto dei luoghi che
caratterizza la vicenda dell’insediamento in Sardegna doveva sembrare cosa
chiarissima a chi ne percorreva allora strade e sentieri. Talvolta sono i percorsi a
circoscrivere il paesaggio agrario, laddove la monocoltura cerealicola domina
col suo sistema di campi aperti nella terra dove più consolidato e forte è il
controllo sociale ed individuale del territorio, la rivoluzione istituzionale della
proprietà non ha sostanzialmente variato il paesaggio storico dell’openfield. Non
meno decisiva è la persistenza o la bonifica della palude, che doveva costituire
ancora cento anni fa una costante assoluta del territorio regionale ed anche uno
degli aspetti più degradati del suo difficile regime idrico. Al polo opposto si colloca
invece l’uso produttivo dell’acqua come fonte di energia per le prime e quasi
uniche macchine dell’archeologia industriale popolare. Molini e gualchiere (e
frantoi) sono diffusi un po’ dappertutto e specialmente concentrati laddove si
realizzano particolari condizioni geografiche, di accessibilità, e anche di
imprenditorialità dei gruppi locali.
Abbiamo già riconosciuto il carattere precario ed arcaico della rete registrata
puntualmente verso la metà dell’Ottocento dalle nostre fonti. Un sistema esile di
strade vicinali unisce fra loro i centri, disegnando una maglia sostanzialmente
equipotenziale e scarsamente gerarchizzata. La « Strada Reale » e poi le
provinciali costituiscono, nella cartografia il solo segno esplicitamente artificiale, in
quanto dotato di un tracciato controllato geometricamente. Rispetto al
serpeggiare di tutti gli altri percorsi (segnale dell’aderenza forzosa alla topografia
locale), gli interventi statali costituiscono dunque il prodotto di un progetto di
trasformazione esterna, capace di imporsi con la sua tecnologia alla naturalità dei
luoghi.
Intorno alla metà del secolo scorso, avviata o completata una prima parte della
infrastrutturazione viaria a grande scala, l’intervento si sposta sulla risoluzione di
una lunga serie di problemi locali.
Il supporto morfologico del sistema viabile si può riassumere in questi elementi:
crinali generalmente percorribili e spesso anzi carreggiabili; coste scoscese talvolta
neanche percorribili a cavallo, valli di montagna che rappresentano vere e
proprie barriere morfologiche prima ancora che idrografiche , pianure alluvionali
percorribili e carreggiabili solo nella stagione asciutta, con alcune difficoltà nel
guado dei fiumi più grossi, pressoché impraticabili invece nel periodo delle
piogge, delle piene e degli impaludamenti. Queste strade, secondo tutte le
descrizioni dell’epoca, si percorrono in molti casi con difficoltà enormi.
Le vie di pianura cedono sotto il peso dei carri, che restano « incagliati in gorghi
fangosi » e i cavalli e i buoi « devono consumare le loro forze per uscire da’
pantani. E il ponte rappresenta l’eccezione persistenza logorata di tempi mitici e
sconosciuti o prodotto di trasformazioni recenti e non consolidate che la prima
piena può rimettere in discussione. I ponti « che ancora sussistono sono pochissimi »
e qualcuno di essi « minaccia di rovinare ».
La costruzione di un ponte, affidata agli sforzi dei singoli comuni, è operazione
epica dagli esiti incerti. La precoce rovina di queste strutture di non alto livello
tecnologico è piuttosto frequente, e la loro localizzazione è rigorosamente
determinata da regole e vincoli analoghi a quelli che determinano la posizione
dei guadi naturali.
Sopra quel resto dell’antica costruzione si suole distendere alcune travi per il
passaggio a’ pedoni; ma accade soventi che le acque crescendo le rapiscano
nella corrente, e restino intrapresi i viandanti.
In questo riuso degradato e rabberciato delle strutture smesse di altre epoche,
nell’inerzia pressoché generale con cui si assiste al disfacimento fisico ineluttabile
delle opere d’arte, in un fortissimo quadro di persistenze raramente evolutive (e
più spesso riscontrabili al livello del grado che sopravvive al ponte, del sentiero
che sopravvive alla strada, del segno che sopravvive al manufatto), nella
memoria mitica della strada romana e del ponte giudicale si legge il senso della
stagnazione plurisecolare che, se non è da assumere come visione semplificata
delle vicende storiche del sistema viario, la dice però lunga sulle condizioni in cui
versava tale sistema al giro di boa rappresentato dall’abolizione del feudalesimo.
Le istituzioni sovraordinate alla comunità per secoli paiono intervenire come puri
estrattori di risorse; dall’Ottocento in poi diventa tangibile anche qualche
contropartita in termini di trasformazione attiva del territorio.
Nel primo periodo post-unitario la costruzione o la regolarizzazione di un certo
numero di strade intercomunali e provinciali introduce, oltreché un disegno di
razionalizzazione dei collegamenti, nuove gerarchie .
Architettura tradizionale e stratificazione sociale nelle campagne
In tutta la Sardegna, e specialmente nelle zone cerealicole del Centro-Sud,
ancora fino a qualche decennio fa, e in parte anche oggi, vigeva un sistema
complesso di utilizzazione comunitaria del territorio, che obbligava a regolare
collettivamente i luoghi, i modi e le fasi del lavoro agricolo e pastorale, fosse o
meno prevalente l’una o l’altra delle due attività. Pastorizia e cerealicoltura
sono del resto sempre più o meno armonicamente associate e coordinate
nell’occupazione dello spazio conosciuto, posseduto e utilizzato in forme varie.
L’organizzazione comunitaria per l’uso dello spazio coltivato e abitato appare
funzionale all’uso doppiamente complementare del territorio complessivo sia
come luogo della coltivazione e del pascolo, sia come luogo abitato dagli
uomini e dagli animali domestici e da lavoro.
In Sardegna su sartu si distingue dal « proprio » centro abitato: ogni centro abitato
ha il suo « sartu », e ogni sartu è pertinenza di un centro abitato. La distinzionecontrapposizione
più sentita è infatti quella tra luogo abitato (bidda) e il suo
esterno (sartu, o foras de bidda). Il contadino e il pastore abitano nel paese (in
bidda), ma lavorano quasi soltanto in campagna (in su sartu). Sartu e bidda sono
nettamente distinti. Una distinzione ovvia e quasi universalmente umana, ma qui è
molto forte, benché le opere domestiche di tipo agricolo (specialmente la cura
degli animali da lavoro) non siano trascurabili. Infatti, come si vedrà subito, la casa
del contadino sardo è sempre, almeno come aspirazione, anche fattoria, luogo
delle attività contadine non campestri. Però è una casa di paese, mai di
campagna. E insomma una casa-fattoria. E tale è in certa misura anche quella
del pastore nelle zone dove la pastorizia è complementare alla cerealicoltura,
dove anche l’ovile è spesso parte della casa-fattoria di paese.
Non si sottolinea mai abbastanza che in Sardegna gli abitati non sono (se non,
raramente per partizioni amministrative decise altrove) entità associate o
dipendenti da altre, come il Dorf o lo hameau centro europeo. Si tratta invece di
entità potenzialmente autosufficienti come possibilità e organizzazione produttiva
e abitativa e di solito autosufficienti anche come organizzazione sociale, giuridicopolitica
(comune) e religiosa (parrocchia). Il coordinamento comunitario e forzoso
si deve in particolare al fatto che l’agricoltura e l’allevamento si conducono nello
stesso spazio coltivato e utilizzato di solito ad anni alterni come pascolo e come
campo. E il sistema di vidazzone e paberile , cioè un sistema di rotazione biennale
dei campi aperti che, grosso modo, bipartisce il territorio utilizzato in due grandi
zone: una per la coltivazione a grano (vidazzone), e una per il pascolo (paberile),
con alternanza annua. Il sistema funzionava meglio, e in tutta la Sardegna, in
tempi in cui vigeva ancora più o meno importante ed esteso il possesso
comunitario dei campi aperti: cioè fino alla legislazione anticomunistica sabauda
della prima metà dell’Ottocento, che si proponeva la creazione della « proprietà
perfetta » della terra. Il sistema tuttavia, e tutto un complesso di usi correlati, si è
conservato fino a oggi in vaste zone del centro-sud dell’isola. La comunità
provvedeva a regolare l’uso dei campi aperti (e in parte anche dei pascoli
permanenti) come luogo di pastura e come luogo della coltivazione. Oltre che
con la rotazione biennale forzata, ciò si otteneva anche tramite una specie di
contratto collettivo detto comunella, che regolava l’utilizzazione dello spazio
agropastorale come pascolo quando non era utilizzato per le colture. Se a ciò si
aggiunge un corpo di polizia rurale (barracellau), remunerata di proprietari in
ragione della quantità dei beni da custodire; l’esistenza di spazi comuni per il
pascolo del bestiame da lavoro, di aie comuni e di chiusi comuni per il pascolo
degli asini posseduti e usati da singole famiglie per le mole domestiche per il
grano; le varie corvées (cumandatas) per la creazione e la manutenzione di
strade interne all’abitato e di penetrazione agraria; l’uso pubblico e regolato di
fontane e abbeveratoi, e altre organizzazioni più ristrette, si avrà un’idea delle
forme di regolamentazione collettiva nell’uso degli spazi interni ed esterni
all’abitato. I pascoli e i campi aperti di proprietà comune, prima delle riforme
anticomunistiche del secolo scorso, erano assegnati per sorteggio, anche se i diritti
d’uso, coi tempo, solevano anche ereditarsi, e benché la forma privata di
possesso fosse già molto diffusa, specialmente nelle zone più marcatamente
cerealicole, al momento delle riforme suddette.
Il quadro sarebbe troppo schematico se non si notasse una caratteristica
notevole, comune a tutta l’isola e a gran parte del Mediterraneo cerealicolo: la
dispersione e la polverizzazione fondiaria. Anche le proprietà familiari più grandi
risultano estremamente frazionate e disperse in tanti piccoli campi distanti più o
meno l’uno dall’altro, accomunati solo dalla rotazione obbligata biennale a
grano e a riposo-pascolo. La concentrazione degli abitati può considerarsi causa
e conseguenza di questa situazione fondiaria. Senza accorpamenti, niente
appoderamenti e case campestri sul fondo, e viceversa. In altri tempi, infatti, e ciò
è documentato per l’età romana e medievale prima della conquista iberica, le
cose andavano diversamente: in zone dove oggi esistono una decina di centri
abitati compatti, ne esistevano circa tre volte tanto.
Ma gli spazi coltivati e abitati, così come gli altri mezzi di produzione e i prodotti
delle varie attività, non erano distribuiti e posseduti in maniera paritaria,
specialmente quando il tipo di possesso era quello della proprietà privata. Ma
anche l’accesso alle terre comuni e al pascolo comune era ovviamente
subordinato al possesso di attrezzi e animali da lavoro e delle sementi, o al
possesso di animali da allevamento brado, oltre che alla possibilità psico-flsica
individuale di compiere il lavoro e all’appartenenza alla comunità territoriale.
Meres o prinzipales (padroni) e theraccos (servi) nel Nord, zappadori a Sassari, pro
prietarius mannus e serbidorir nel Centro-Sud, giornaderis nei Campidani, sono solo
le denominazioni più comuni dei tipi o ceti sociali locali più importanti in cui si
stratificava la popolazione rurale negli ultimi secoli. Stratificazione che si delinea
soprattutto in base alla proprietà dei principali mezzi di produzione agropastorale.
Ricco e povero qui sono « sempre » esistiti nella realtà sociale vissuta e nel modo
tradizionale di pensare il mondo, la società, comunque poi questa dicotomia tra
ricco e povero venga spiegata, valutata, giustificata, deprecata.
Bisogna certo osservare che anche qui il modello ideale e perciò l’aspirazione dei
ceti meno abbienti è la realizzazione di una famiglia-azienda, cioè di organismi a
base familiare che siano insieme unità di consumo e unità di produzione, oltre che
unità di riproduzione della vita umana individuale e unità di coabitazione. Ma la
realtà è « sempre » stata diversa: poche famiglie con mezzi di produzione (terra,
animali, attrezzi, spazi costruiti) in quantità superiore alla loro disponibilità di lavoro
familiare, da una parte, e dall’altra molte famiglie senza mezzi o con scarsissimi
mezzi di produzione oltre la forza lavoro dei singoli; e in mezzo una quantità non
trascurabile di contadini e pastori medi e piccoli che più o meno a stento
riuscivano a riprodursi come famiglie-aziende autonome. È chiaro che la prima
categoria dei possidenti (prinzipales, meres, proprietarius) e la categoria dei poco
o nullatenenti dipendevano l’una dall’altra in modo sbilanciato a favore dei primi:
i prinzipales o meres o pro prietarius sono i « padroni » di uno suolo di servi,
giornalieri, semioccupati, lavoratori più o meno precari e dipendenti. Sono
appunto i ricchi e i poveri su misura locale. Vedremo come le loro case fossero
segno inconfondibile di questa situazione stratificata in subalterni e dominanti e
come il modo d’abitare, anche qui, fosse e sia un modo tipicamente locale di
rapportarsi l’un l’altro e di misurarsi come figure sociali. Organizzazione
asimmetrica, dunque, in base al possesso sbilanciato delle condizioni della
produzione: cioè, principalmente, di terra, animali, attrezzature (compresa la
casa-fattoria), capacità di lavoro effettivo. Faremo solo l’esempio del rapporto tra
padroni e servi di campagna, che durava formalmente un anno solare, dall’inizio
dei lavori di campagna all’inizio di un nuovo ciclo, di una nuova annata. I servi
erano gerarchizzati in una scala che ne prestabiliva la carriera. Al vertice, un capo
dei servi di campagna (sotzu). In linea di principio la gerarchia si basava sulle
capacità operative dei servi, di solito fatte coincidere con la loro età. La carriera
incominciava verso i dieci anni, come addetti al pascolo e alla cura degli animali
da lavoro (boinargius). Con l’eccezione possibile del soizu, i serbidoris vivevano in
casa del padrone. E importante notarlo perché questa coabitazione ha a che
vedere con il tipo di casa-fattoria di cui si tratterà. E dà ragione immediata di che
cosa significhi che le famiglie-aziende dei maggiori proprietari (messaius mannus o
propri etarius mannus) esorbitavano per eccesso la realtà (spesso esagerata) e
l’aspirazione (altrettanto spesso non realizzata) dell’autosufficienza e
dell’autoconsumo familiare contadino.
Ancora fino agli anni Cinquanta di questo secolo il padrone forniva vitto e
alloggio come parte della remunerazione dei servi di campagna, mentre il resto
dei compenso era anch’esso soltanto in natura (cereali o bestiame). Il
pernottamento obbligatorio nella casa-fattoria del padrone, situata sempre
dentro l’abitato, è un uso che si è conservato fino alla scomparsa di questo tipo di
lavoro subordinato, nei primi lustri di questo dopoguerra. Il padrone forniva anche i
pasti che si consumavano in campagna. La sera i servi rientravano a casa dei
padrone, non più tardi delle otto-nove di sera anche nei giorni festivi. Qui per loro
esisteva un locale-dormitorio, dove i servi passavano la notte su stuoie di erbe
palustri, per essere pronti all’alba della nuova giornata di lavoro, che
naturalmente durava, sui campi, dall’alba al tramonto, ma che spesso si
prolungava in casa del padrone fino a notte inoltrata e incominciava prima
dell’alba, per esempio per dedicarsi alla cura degli animali da lavoro. Era
proverbiale dire che il padrone aveva maggiori riguardi per i suoi animali che per
chiunque dei suoi servi, che non aveva comprato in fiera. Soltanto il capo dei servi
(sotzu), specialmente se era sposato, di solito poteva passare qualche notte
feriale in casa sua.
E utile considerare che in queste zone i contadini ricchi sono di rado assenteisti,
ma vivono nel paese dove hanno le loro aziende e se ne occupano. Venendo
meno la conduzione diretta, la casa-fattoria di paese tende a venir meno, com’è
successo nel Nord cerealicolo, dove gli annessi agricoli e gli animali da lavoro e
da allevamento sono stati espulsi fuori dall’abitato, compatibilmente però con
un’agricoltura e una pastorizia meno florida e meno animata da una «
imprenditorialità » familiare diretta. Il rapporto di lavoro subordinato a contratto
annuale tipico del Centro-Sud permetteva a un « imprenditore » agricolo — e tali
erano i maggiori proprietari, nella misura in cui erano acquirenti di forza lavoro
remunerata a contratto e anticipatori di risorse per produrre beni almeno in parte
anche venduti o comunque scambiati — di servirsi dei loro dipendenti a pieno
tempo: di disporre cioè del tempo dei loro servi senza che questi potessero avere
più di qualche possibilità occasionale di intervenire in questo tipo di decisioni. Il
tutto era regolato da norme consuetudinarie che non prevedevano molta
tenerezza per i suoi dipendenti da parte della famiglia del padrone. E dunque
soprattutto la coabitazione che indica, spiega e permette quest’uso del tempo
dei subordinati in modo quasi totale. In questo modo infatti i serbidoris passavano
anche il tempo di non lavoro (riposo, pasti) nella casa padronale, in seno alla
quale costituivano una sezione subalterna dell’unità familiare di produzione e di
consumo, oltre che di residenza, gestita dal padrone. La padrona (di solito moglie)
gestiva direttamente l’altra sottosezione della servitù domestica, normalmente
solo femminile, a volte addetta anche a certi lavori agricoli riservati alle donne.
Erano però i servi di campagna (e le serve domestiche) che vivevano in casa del
padrone, non le loro famiglie. Le famiglie dei serbidoris costituivano unità di
residenza e di consumo (qualche volta anche di produzione più o meno precaria)
del tutto autonome: in case, appunto, che ben ne mostrano la condizione di
famiglie che non sono aziende.
I pescatori dipendenti, detti anch’essi serbidoris, delle peschiere degli stagni
costieri sardi erano di solito anch’essi organizzati in modo simile, compreso
l’obbligo di residenza e di pernottamento, per lo meno a turni, nelle « case » (sa
domus) di peschiera, come per esempio a Cabras e Santa Giusta (Oristano), fino
a pochi anni addietro. Con la differenza però che nel caso dei pescatori di stagni
costieri il padrone non viveva in peschiera, ma è ritenuto un tipico padrone
assenteista.
I contadini medi e piccoli, a volte perfino privi del tutto di terra — e perciò
dipendenti dai maggiori proprietari nella forma dell’affitto di un tipo locale di
mezzadria a tempi brevi —, realizzavano più o meno sufficientemente lo scopo di
far coincidere famiglia e azienda, unità di produzione
unità di consumo. Un contadino medio, e soprattutto un contadino piccolo, ha
bisogno di lavoro supplementare a quello di cui può disporre in famiglia quasi solo
nel momento emergente del raccolto. Ma essi pure usufruivano dei servizi collettivi
(polizia campestre, aie comuni, pascolo comune dei buoi da lavoro, ecc.). I
maggiori proprietari di terra, di strumenti e di bestiame da lavoro, e perciò anche
maggiori produttori agricoli, erano pure i proprietari più grandi di bestiame da
allevamento (soprattutto pecore). Invece le aziende dei contadini medio-piccoli
erano quasi sempre aziende monocolturali cerealicole, mentre per le aziende dei
maggiori proprietari cerealicoli, che spesso erano anche aziende allevatrici, la
componente agricola risulta quasi sempre predominante su quella pastorale. Una
menzione, infine (altrove si parla di artigiani) della categoria dei « signori », non
sempre ricchi, però diversi, anche come abitudini abitative, dal resto della
popolazione contadina, pastorale e artigiana, e un cenno anche al ceto dei
mercanti. i « signori » erano i pochi addetti ai servizi dell’amministrazione locale e
statale, della salute, dell’istruzione popolare e della religione cattolica ufficiale.
Situazione a sé era anche quella dei commercianti di vario tipo e calibro, con
esigenze e possibilità abitative di solito superiori a quelle medie locali. « Signori » e «
mercanti » erano agenti e intermediari locali di attività di tipo esterno: dello stato e
del mercato. Più o meno estranei agli usi locali, lo mostrano nelle loro case di tipo
anche cittadino: non case-fattorie, né tanto meno case « povere », ma imitazioni
più o meno ruralizzate del palazzotto di tipo cittadino.
Quello che andiamo descrivendo è dunque un mondo ancorato alla terra,
caratterizzato da « una base fortemente territorializzata » della società e dello
spazio insediativo che essa stessa si è costruita. Altrove una piazzaforte, un
mercato, un porto si localizzano in funzione di problemi di controllo a vasto raggio,
del territorio; si tratta di forme insediative che presuppongono una strategia
territoriale di ambito non locale, un progetto insomma che trascende le comunità
e si propone come strumento di razionalizzazione in qualche modo pianificata ed
esterna.
Stiamo dunque parlando di una costruzione tutta « interna », sia in senso
geografico, sia in senso antropologico:
autosufficienza, autoregolazione (ma, anche, autarchia e autoconsumo) sono
l’orizzonte di sfondo dello spazio regionale. Il che non presuppone affatto una
reale autonomia, perché su quello sfondo sta anche, non meno essenziale, il
dominio esterno alla comunità (sia esso baronale, statuale, militare). Dentro queste
coordinate si è disegnato, per secoli, il sistema dei villaggi sardi: ciascuno e tutti,
pur nella varietà delle di mensioni, forme e relazioni, ci appaiono profondamente
e quasi univocamente segnati dal radicamento locale, da un equilibrio
economico e morfologico-localizzativo strettamente aderente alla risorsa-territorio.
Il paese è un luogo « medio », un baricentro del suo spazio di pertinenza almeno in
tre sensi. La comunità, se appena può, anzitutto si installa e si consolida tra il
campo ed il monte: tutto ciò per garantirsi al massimo livello possibile una gamma
completa di opportunità di sussistenza. Così si tende a scegliere come luogo da
abitare un sito che renda equilibrati accessibilità e controllo sui luoghi del lavoro.
In secondo luogo, il paese è, per ogni contadino, il baricentro ideale della
proprietà dispersa, dei molti campi distanti fra loro che è forzato a coltivare (in
proprio o per conto d’altri) compiendo la quotidiana fatica dell’andata al campo
e del ritorno al villaggio. La terza centralità è per l’appunto quella dell’abitare: una
contrapposizione macroscopica, mai abbastanza sottolineata, tra il pieno del
paese, l’addossarsi densissimo delle case, dei muri, dei portali nel perimetro
dell’abitato e il grande vuoto del campo e dell’incolto, tra luogo dell’abitazione e
luogo del lavoro.
A guardare bene, le differenze e le specificità sono poi tante; non abbastanza
però da togliere significato al modello. Cento anni fa, le dimensioni dei villaggi
oscillavano dai 121 abitanti di Baradili (il più piccolo), ai 6.638 di Quartu (il
maggiore). Eppure, il centro-tipo è senz’altro un paese tra i 1.000 e i 2.000 abitanti,
con un territorio comunale ampio, ben distanziato dai centri vicini non meno
accorpati e compatti, isolati e autosufficienti se non ostili fra loro, comunque non
facilmente solidali. Questa identità prevalente, ben esemplificata dal villaggio di
pianura e dal medio borgo pastorale, abbiamo già visto come non sia né «
originaria » né metastorica, ma piuttosto frutto di un complesso insieme di eventi, e
di violente ristrutturazioni.
Questo sconvolgimento, naturalmente, non ha agito omogeneamente, ed anzi ci
ha consegnato un territorio segnato da profonde differenze interne. Qua e là, veri
e propri sistemi insediativi interconnessi organizzano il proprio spazio agrario in
forme capillari, più conservative e arcaiche.
Si può considerare anzitutto il caso di quei villaggi (non pochissimi) che sono
esplicitamente il prodotto dell’aggregazione di nuclei distinti. Questo
addensamento di entità distinte, dotate di propria fisionomia indipendente,
almeno finché le rileva il cartografo ottocentesco (ed anche successivamente)
rinvia al modello medievale della scolca , una sorta di associazione solidaristica (e
presumibilmente di difesa e assicurazione reciproca) che poteva coinvolgere
anche i membri di comunità differenti realizzandosi concretamente nella
vicinanza insediativa nella gestione di un territorio comune. Ma non sono solo
questi casi-limite a contraddire il modello dominante.
Lo stereotipo del villaggio bloccato e monolitico si risolve spesso in una diversa
immagine, quella di un’unità che si realizza per parti; anzi è proprio dalla dialettica
delle parti « I vicinati »che si può ricomporre nel centro la identità e la complessità
insediativa perduta sul territorio. Di frequente si consolidano, in angoli
particolarissimi dentro i saltus spopolati, costellazioni di centri unificati dalla loro
prossimità reciproca che li rende eccentrici rispetto a territori talvolta vastissimi.
A ritroso, la « storia immobile » del villaggio è percorsa da considerevoli sussulti, di cui
l’insediamento porta tracce evidenti. Il numero stragrande di chiese campestri
disseminate in ogni angolo della regione non è il frutto di un movimento centrifugo
di appropriazione rituale dello spazio agrario che si irradia dal villaggio ma, al
contrario, il prodotto di un processo inverso, centripeto, di abbandono e
concentrazione. La chiesa campestre si segnala spesso come un fossile, il sito di un
centro scomparso, i cui abitanti hanno infine trasmigrato verso un villaggio più o
meno vicino, portandosi appresso il proprio territorio e la continuità rituale di
frequentazione della chiesa corrispondente (la sagra campestre) come pegno di
possesso. Ma anche a scala assai più vasta si creano interdipendenze e sistemi: e
ciò nelle condizioni più disparate.
Frutto dell’assetto « cantonale » del territorio, hanno costituito da sempre (e
tendono a conservare anche oggi) unità di comunicazione interna, relativamente
isolate, o comunque fisicamente e funzionalmente ben individuate, rispetto alle
aree vicine. I casi considerati , tuttavia (piccoli grappoli di centri con un’economia
mista agro-pastorale) sono tutto sommato fenomeni di margine, pur se molto
significativi, nel tessuto insediativo regionale. Diverso è il peso di alcune aree
fortemente specializzate, in particolare in senso cerealicolo. Centri piccoli,
compatti e numerosissimi, che cento anni fa contavano ancora un centinaio di
famiglie ciascuno, in media, controllano capillarmente territori di dimensione
inferiore ai 1.000 ha, di gran lunga la minima superficie rintracciabile nei vasti spazi
regionali. I confini amministrativi di questi centri disegnano un reticolo
perfettamente riconoscibile in quanto ormai unico nella griglia dei territori
comunali della regione: l’eccezione della maglia stretta dentro la regola delle
maglie larghissime dell’habitat accentrato. Qua la comunità locale, anche nel
generale processo di ripiegamento e concentrazione di 5 o 6 secoli fa, ha
conservato questa forma di presenza diffusa, che perpetua la stretta economia
del rapporto col suolo proprio del villaggio accorpato (nessuna casa nel campo),
ma la ripartisce su perimetri relativamente corti, su orizzonti di comunicazione
molto prossimi. La base di questo rapporto originario con la terra è la disponibilità
delle colline a nord-est del Campidano ad accogliere la migliore cerealicoltura
dell’isola senza richiedere quegli investimenti in bonifica, drenaggio, controllo del
regime delle acque che le comunità locali per molti secoli non sono più in grado
di esprimere autonomamente. Quando questo delicatissimo equilibrio della
scarsità è rotto (e ciò accade quasi dovunque), si produce il grande villaggio, con
una pertinenza territoriale di decine di migliaia di ettari, autosufficiente per
necessità dettate dall’isolamento, privo spesso persino di contatto visivo con altri
villaggi. In pianura, la scansione dei centri (oltre che sulla misura del territorio
produttivo) è organizzata in se-quenza sulle principali vie di comunicazione.
Altrove prevale la problematica del controllo dei grandi saltus, gli spazi delle
pratiche pastorali e « naturali » cui era legato molto della sussistenza fisica di intere
comunità. Dal conflitto su questi territori è segnata, come si vedrà di seguito, la
vicenda di non pochi dei nostri centri.
Il villaggio e le sue parti.
Il villaggio, visto per così dire « da lontano », esprime soprattutto omogeneità e
compattezza, opposizione radicale e univoca allo spazio agrario e naturale. « Da
vicino » invece, se ne vedono articolazione e differenze. Non sempre,
naturalmente, è possibile riconoscere un vero e proprio processo di aggregazione
dall’esterno, né disponiamo di fonti sicure su gran parte dei movimenti adombrati
nei miti di fondazione e rifondazione. Tuttavia, dove la cartografia e la
toponomastica catastale ottocentesca si presentano sufficientemente articolate
e precise con l’ausilio della tradizione fondativa, si può arrivare a dar conto di un
sistema documentato e riconoscibile.
Fontane e pozzi pubblici da un lato e chiese dall’altro formano dunque i poli di
aggregazione dei diversi settori del paese.
Praticamente, nelle cartografie ottocentesche, ad ogni vicinato corrisponde una
fontana e, con eccezioni solo marginali, una chiesa; inoltre, ciascuna di queste è
collocata in posizione centrale o comunque dominante solo rispetto al suo
vicinato.Il caso esaminato costituisce indubbiamente un episodio- limite, anche se
esemplare in quanto condensa in s gran parte degli elementi di riconoscibilità
delle parti urbane, che altrove si presentano in forme più incerte e parziali.
2. La cultura della divisione
Dentro lo spazio abitato il ricco e il povero, il proprietario ed il biacciante si
ritagliano i loro ambiti, si muovono, costruiscono e trasformano le abitazioni,
spostano faticosamente e per quantità minime (eppure significative, talvolta
decisive) le frontiere tra pubblico e privato, tra edificato ed agro. La piramide
sociale è tutt’altro che appiattita, se è vero che cent’anni fa un tipico borgo
cerealicolo (per il quale la dimensione della proprietà fornisce una misura
sufficientemente attendibile delle gerarchie di reddito) contava 16 grandi
proprietari su 500 nuclei familiari . Dunque, si può ragionevolmente ritenere che il
villaggio, nella sua forma attuale accentrata, sia proprio il luogo dove si svolge
concretamente il rapporto di conflitto e di integrazione fra i pochi prinzipales ed i
moltissimi nullatenenti, variamente mediato da una gerarchia sociale intermedia
ricca di sfumature. Infatti i molti proprietari medi e piccoli, cui non è in teoria del
tutto precluso l’accesso alla fascia superiore, sono però anche soggetti il cui
patrimonio è continuamente esposto ai rischi più disparati.
Anche se l’incerta tradizione orale non consente di definire una mappa degli
antichi vicinati o quartieri, in alcuni casi l’impronta lasciata dalle stratificazioni delle
classi sociali nell’insediamento è assolutamente ricostruibile.
L’ossessione dell’acqua
Nel rapporto « al limite » con la natura e le risorse che caratterizza il villaggio,
l’acqua è una presenza ossessiva,
un fattore permanente di necessità e di rischio.
Abbiamo visto come geografia e geologia si siano coalizzate a complicare il
problema: così, l’acqua inanca quando la si vorrebbe, ma quando arriva può
essere un flagello; è capace di ristagnare nei modi più indesiderabili nelle paludi, e
però anche di scomparire quando sarebbe più necessaria, facendosi inghiottire
dagli innumerevoli fenomeni carsici della regione.
In altri termini, è ancora possibile leggere e interpretare il territorio, la forma
dell’habitat e la dislocazione dei centri come il prodotto di un meccanismo
complesso nel quale la presènza e l’assenza della risorsa idrica, la vicinanza o la
lontananza dalle zone a più difficile drenaggio, la possibilità o l’impossibilità di
controllare il regime idrico hanno costituito altrettanti elementi decisivi per
orientare le scelte delle comunità locali in ordine all’insediamento.
Naturalmente, le diverse alternative hanno avuto influenze ed esiti differenti nel
corso dei tempo; ciò equivale a dire che l’acqua non può essere considerata
come una determinante puramente fisica, ma che invece è « determinante » il
modo con cui la comunità si rapporta al territorio, la sua tecnologia, la sua
organizzazione produttiva e socialeL’obiettiva difficoltà di captare e
irreggimentare l’acqua, unitamente allo scarso contenuto tecnologico della
cultura insediativa nel villaggio, ci fanno immaginare a quali stringenti e
drammatiche alternative fosse soggetta la scelta del sito. Allontanarsi dall’acqua
scontando scarsità terribili o avvicinarsi, rischiando periodicamente i suoi effetti
devastanti, o il continuo stillicidio del paludismo malarico: questa è stata per
secoli, in una sintesi estremizzata, la condizione del centro agricolo medio.
Il pozzo diventa dunque un vero fulcro del villaggio, anzitutto a partire
dall’organizzazione domestica di quelle abitazioni che possono permetterselo. Se
sta in una corte (e ciò accade quasi sempre), il pozzo è collocato in posizione
geometricamente e funzionalmente centrale. Nelle grandi case- fattoria può
assumere proporzioni imponenti, vero monumento all’acqua, di grande sezione e
di impianto murario impegnativo.
Nella gran parte dei casi, un manufatto relativamente modesto (anche se
costruito spesso con grandi lastre monolitiche in pietra, assai preziose e onerose
nei villaggi di pianura) è al centro di un sistema che prevede, tra l’altro, una serie
complessa di abbeveratoi per il bestiame (laccus e laccbittus in pietra) oltre ai
sistemi di irrigazione dell’orto.
Naturalmente, il pozzo entra come una delle risorse più essenziali e meno divisibili
nei processi di frazionamento ereditario: è del tutto comprensibile come lo sforzo
tecnologico ed economico corrispondente fosse tale da non consentire a
nessuno rinunce che non apparissero assolutamente obbligate. Col pozzo, la «
cultura della divisione » del villaggio agricolo si misura sino in fondo con i suoi
paradossi. Quando si divide una corte col pozzo, si può anzitutto cercare di
tenerlo per quanto possibile in comune: sono documentati al Vecchio Catasto
mappali indivisi in forma di imbuti o corridoi sul cui fondo sta il pozzo. Quando
questo non è geometricamente possibile (o conveniente, o desiderato) allora i
confini di proprietà passano proprio su quel punto, vero fulcro di linee di forza
materializzate dalla divisione. In questo caso, ci si trova di fronte frequentemente
ad un « pozzo tramezzato ». Abbiamo documentato situazioni nelle quali il muro di
divisione della proprietà si prolunga, sospeso sui vuoto del pozzo stesso, lasciando
appena uno stretto varco perché ognuno dei proprietari possa, dalla sua parte,
attingere l’acqua.
Questo pozzo, originariamente privato, possiamo anche ritrovarlo in fondo ad un
vicolo. Rotti i legami di consanguineità tra vicini che godono in comune
dell’acqua del pozzo (e questo può avvenire nei volgere di una generazione), il
mappale indiviso può finire per diventare collettivo e poi pubblico. Questo
passaggio illumina particolarmente i modi concreti attraverso i quali prende forma
ed evolve l’architettura popolare del villaggio. Il pozzo in fondo al vicolo è cosa
diversa dalla fontana del paese, anche se a volte è (significativamente) costruito
con maggiore cura. La fontana pubblica per lo più coincide con i luoghi centrali
del villaggio, e li segnala; è collocata di frequente su slarghi importanti che
costituiscono talvolta il fulcro, in altri casi il limite di quartieri e vicinati. Anzi,
talmente rilevante è il ruolo funzionale e simbolico, la valenza aggregante e
sociale di questi luoghi, che da essi prendono nome molti dei vicinati stessi.
L’acqua, dunque, aggrega e distingue le parti del villaggio. Questo ruolo lo
assume non solo quella, ben controllata, della fontana, ma anche il torrente, il rio
poco o nulla arginato..
Dal territorio, l’uso dell’energia idraulica si spinge fin dentro l’abitato, dove un
frantoio veniva azionato dal rio che attraversa il paese. In questo caso, però,
siamo di fronte ad una struttura urbana più organica, nella quale il rio non è
decisivo nel definire i settori.
Edilizia rurale: case ricche e case povere.
Qualificare un’abitazione o un tipo d’abitazione come povera o ricca è
operazione comune e immediata. Con l’alimentazione, l’abitazione, specialmente
nelle società tradizionali, si prende in gran conto per valutare un modo, un tenore
di vita in termini di ricchezza e di povertà, anche se sono svariate le conclusioni,
soprattutto a seconda che a giudicare sia un soggetto interno o esterno alla
cultura di cui il tipo d’abitazione è un elemento. Quest’aspetto ovvio della cultura
dell’abitare è spesso trascurato, anche in opere di antropologi, abituati per
mestiere a interessarsi della varietà dei modi di vivere e di pensare i propri o altrui
modi di vivere. Poco comune è anche l’idea, altrettanto ovvia, che la varietà dei
modi d’abitare, specie se giudicata nei termini così comuni di ricchezza e povertà,
è misurabile « in funzione » della stratificazione interna alla società studiata.
Non a caso s’è detto ricco e povero. Sono termini che nella cultura anche non
popolare si usano per qualificare efficacemente abitazioni e modi d’abitare, oltre
che generi di vita in generale. E se è vero che si tratta di un giudizio che unisce
nozioni diverse come quantità, bellezza, funzionalità, posizione, stile, rifiniture,
pertinenze, arredamento, eccetera, bisogna anche considerare che tutte queste
nozioni si applicano a case diverse a seconda del senso comune dominante
intorno alle caratteristiche positive e negative dell’abitare. Ma per quanto
generiche, le qualificazioni di ricca e povera per un’abitazione sono ancora le più
comprensive del valore che una società o uno strato sociale attribuiscono al
modo d’abitare proprio o altrui.
Per ragioni di competenza si tratta qui più particolarmente del Centro-Sud, con
profondità temporale che non supera la memoria delle generazioni viventi, cioè
con un massimo di circa un secolo e mezzo. Lo scopo è dunque di rendere conto
di come la casa sia anche conseguenza e segno di appartenenza a uno dei livelli
della stratificazione sociale interna:
sia obiettivamente, cioè per caratteristiche soprattutto strutturali e quantitative
della dimora osservabili direttamente; sia soggettivamente, cioè secondo il metro
di giudizio (sintetizzato principalmente nelle nozioni di ricchezza e povertà) che ne
danno i diretti interessati, dall’interno, secondo valori propri.
Come è facile immaginare, data la « normalità » della cosa, in generale, le case di
paese, rurali — cioè le case dei centri abitati compatti e le case delle piccole
zone di habitat disperso — si presentano come plurifunzionali, nel senso che a
locali da abitare uniscono locali usati come laboratori domestici,’ magazzini,
rimesse, stalle, tettoie, ovili, letamai, bassa corte, pagliai. Sono case per abitare e
case per fare lavori per il consumo domestico e per le attività’ agricole, con la
conseguenza che case di questo tipo debbano essere provviste di cortili più o
meno ampi, e in cui si trovino anche il pozzo e/o la cisterna, abbeveratoi per
animali di piccola e grossa taglia e altro ancora. Pur essendo case di paese, esse
sono concepite e adibite, oltre che per esigenze tradizionali della vita domestica,
anche per attività lavorative del campo e del gregge e alla conservazione dei
prodotti, paglia e legna comprese, e quindi anche dei sottoprodotti e dei residui
sempre puntigliosamente utilizzati in lavorazioni e usi successivi secondo una
sapienza riciclatrice di tradizione millenaria in regime di penuria, soprattutto
alimentare.
Consideriamo subito che è proprio il tipo di presenza delle parti non adibite
prevalentemente ad abitazione, cioè degli annessi rustici, che qualifica una casa
dal punto di vista della tipologia sociale dei suoi possessori e soprattutto dal punto
di vista della stratificazione sociale. Tale per lo meno è la situazione nelle zone
prevalentemente cerealicole del CentroSud.
Infatti la casa di paese del contadino che possiede almeno a sufficienza le
condizioni della produzione mostra questa sua qualità di proprietario più o meno
grosso dei mezzi e degli oggetti materiali della produzione agricola o agropastorale.
La casa del bracciante, praticamente nullatenente e quindi servo o
giornaliero, di solito è priva di annessi agricoli, e a volte anche di quei laboratori
domestici come forno e mola asinaria; la casa del contadino « normale », e tanto
più se ricco, ha stalle e cortili, ovili e magazzini che ne mostrano la consistenza di
proprietario, e sarà definito in parlata locale con termini come messaiu mannu
(contadino grande), messaieddu (contadino piccolo), grana’u pro prietariu
(grosso proprietario), meri (padrone) e altri.
Il cortile, per esempio, varia da un minimo zero, dato che non di rado può essere
assente nella casa del bracciante o del servo pastore, a un massimo d’estensione,
e di solito anche di numero (2, 3 cortili), nella casa dei maggiori pro-prietari di terra
e di bestiame. Si avrà infatti spesso, in quest’ultimo caso, il cortile rustico con le
stalle e gli altri annessi per l’alloggio dei servi e degli animali da lavoro; il cortile
con gli ovili e gli altri annessi pastorali (poiché ricordiamo che non era raro,
specialmente nel Sud cerealicolo, che il gregge avesse l’ovile nella casa di paese
del suo proprietario); il cortile padronale, luogo d’accesso, ordinato e imbellito da
alberi più o meno ornamentali e da fiori curati dalle donne di casa. Al cortile
padronale si accede di norma attraverso portali che da soli la dicono lunga sulla
posizione sociale del padrone di casaIl portale più o meno grande e solenne è
tipico del contadino medio-grande, non del, contadino piccolo e tanto meno del
contadino povero, del bracciante nullatenente. A ben guardare, infatti, è già il
portale o il tipo di accesso alla casa che è l’indice molto chiaro di chi lo usa. E la
cosa è sentita tanto ‘che i maggiori proprietari solevano apporre in bassorilievo
evidente le loro iniziali nel punto più alto dell’arco del portale; e certi artigiani
agiati vi aggiungevano le insegne della loro arte. Ma ad autorappresentarsi così,
con queste specie di blasoni esibiti nel punto più visibile della casa, sono solo i
proprietari grossi e gli artigiani e i mercanti più floridi, non certo i contadini piccoli e
i nullatenenti. Anche i mercanti, appena potevano, vivevano in complessi
domestici grandi del tipo di quelli dei proprietari grossi, benché non avessero
necessità di annessi rustici. La forza economica e il prestigio sociale dei maggiori
proprietari agricoli era evidentemente grande, se a volte mercanti e « signori »
tendevano a diventarlo anch’essi, investendo in terre e bestiame e quindi
adeguandosi ai loro modi d’abitare. Nella seconda metà del secolo scorso non
era difficile diventare massaiu mannu per chi avesse disponibilità anche limitata di
denaro liquido con cui acquistare terre all’asta per debiti col fisco.
Oppure si badi alla tendenza allo sviluppo in altezza, oltre che in estensione per
giustapposizione di locali. Le case dei braccianti erano di solito a un piano, quelle
dei contadini non poveri erano di norma a due piani, ambedue con funzioni
strettamente abitative: spesso il piano superiore, nelle case dei proprietari piccoli,
era adibito a deposito delle derrate per il consumo familiare. A partire dalla
seconda metà del secolo scorso le case d’abitazione dei maggiori proprietari
tendono ad assumere la forma del palazzotto di tipo cittadino, escono dal
quadrilatero del grande cortile padronale d’ingresso, e l’ingresso si fa immediato
dalla strada mentre rimangono ingressi distinti per i cortili rustici. Il complesso
restava però quello di una casa d’abitazione, magari di tipo urbano, con annessi
rustici importanti.
La casa tipica della pianura e della collina può dunque definirsi a ragione casafattoria,
legata direttamente alle esigenze dell’agricoltura e dell’allevamento
ovino brado. Essa ha però la peculiarità di trovarsi all’interno del paese, adiacente
ad altre, tanto che spesso risulta essere conseguenza di divisioni successorie di
complessi rustici in precedenza più grandi. Questa « tipicità », però, l’essere cioè
insieme abitazione e complesso di annessi agricoli e/o pastorali, poteva, come già
accennato, essere raggiunta o fallire. Non tutti sono contadini « autonomi », ma è
la maggioranza, e non solo a memoria d’uomo ma per quanto si riesce a risalire
indietro nel tempo, che non è fatta di « coltivatori diretti », bensì di contadini più o
meno dipendenti dai maggiori proprietari. La casa degli uni e degli altri ne dà
immediata testimonianza e serve a misurare direttamente il posto che i suoi
abitatori occupano nella stratificazione sociale locale. La casa del lavoratore
agricolo nullatenente e dipendente mostra il fallimento dell’aspirazione allo stato
di contadino (massaiu), cioè alla costituzione di una famiglia-azienda autonoma:
è priva di annessi agro-pastorali, e ciò significa che, se egli è lavoratore della terra
o pastore, lavora però alle dipendenze di chi anche nella casa mos tra la sua
condizione di contadino ricco capace di utilizzare forza-lavoro altrui. La casa del
contadino ricco infatti testimonia, per così dire, di un eccesso di realizzazione
dell’aspirazione alla costituzione di una famiglia-azienda autosufficiente: la sua
grossa azienda ha bisogno in misura notevole e prevalente di « manodopera »
salariata extrafamiliare perché possiede le condizioni della produzione (terra,
casa, animali, attrezzi) in misura superiore alle possibilità d’uso da parte dei
membri attivi della sua famiglia.
Nelle montagne prevalentemente pastorali la casa di un pastore ricco di gregge
e di pascolo può anche non lasciar vedere la condizione dei suoi abitatori (ma di
solito si vede anche lì), ma nelle zone cerealicole, specialmente del Centro-Sud,
un contado può essere tale a incominciare da come riesce a congegnare la sua
casa-fattoria di paese. Senza casa adeguata, cioè senza magazzini, stalle, pagliai,
letamai e altro, non si può essere coltivatori, da nessuna parte, solo che non
dappertutto questi spazi rustici fanno parte integrante di una casa di paese, e
tanto meno nella forma< urbana » della Sardegna cerealicola del Centro-Sud.
Non di rado, e in alcuni centri questa può essere norma, esistono veri e propri rioniceto.
Si hanno cioè rioni interi di nullatenenti, con case spesso prive
dell’indispensabile cortiletto (deposito di legna, immondezzaio, bassa corte); rioni
di contadini medi coi loro annessi cerealicoli (poiché questi raramente sono
possessori di aziende agricole e pastorali insieme); e rioni di contadini ricchi colle
loro case che possono apparire francamente smisurate: spesso il complesso di una
casa-fattoria ricca nel bel mezzo dell’abitato può misurare anche alcune migliaia
di metri quadri, e a volte superare anche l’ettaro. Rioni di ricchi, dunque, rioni di
poveri e rioni « di chi sta in mezzo ». A voler essere più precisi però, sono soprattutto
i rioni poveri che si distinguono con nettezza, probabilmente perché di poveri c’è
sempre un numero relativamente abbondante per formare agglomerati
omogenei.
Spesso risulta difficile discernere queste cose, anche nel recente passato, quando
l’agro-pastoralità sarda tipica era ancora quella che è stata forse per millenni.
difficile sia perché il disegno urbanistico spontaneo è complicato dalla presenza
più o meno sporadica di case di artigiani, di « signori » di edifici privati e pubblici «
atipici », da una parte; sia perché, d’altra parte, il tessuto urbano risulta unificato e
ingrigito da una tipicità stilistica che almeno esteriormente rende simili tutte le case
contadine, con le loro recinzioni cieche di pietre non intonacate; sia perché i vari
rioni-ceto non erano sempre puri da intrusioni di case di contadini di stato inferiore
o superiore.
Specialmente nelle zone prevalentemente cerealicole e nei piccoli cantoni di
colture specializzate (vite, ulivo, agrumi) del centro-sud dell’isola, le case rurali
risultano di solito piuttosto « grandi », anche quando siano localmente considerate
e siano effettivamente da considerare insufficienti i locali adibiti ad abitazione e a
laboratorio domestico. Una casa da meno, nel Centro-Sud, era rara, tra i
contadini, i pastori e gli artigiani.
Le case ricche invece erano soprattutto grandi anche nella parte abitata dalla
famiglia. Grandi erano specialmente le cucine, di solito doppie e anche triple. E
grandi erano anche i laboratori domestici per il consumo: il locale della mola, il
locale per fare la farina e il pane, il locale del forno con la sua cupola esterna
intonacata con fango e paglia, lo stesso materiale dei mattoni crudi (làdiri) delle
case povere. E come è ovvio, sono le case ricche che per prime mostrano
innovazioni di provenienza esterna, fino a « uscire » del tutto da! quadrilatero del
grande cortile padronale per proiettarsi verso l’esterno a fil di strada, a perdere la
lolla e assumere l’aspettò di palazzotto comodo e anche civettuolo in forme
estranee alle tradizioni locali, come il ferro battuto ai balconi e il bugnato in
facciata. Salvo però il portale, che resta monumentale, ma non è più a&esso
principale alla casa del padrone, bensì alla zona degli annessi.
La cultura abitativa sarda dunque apprezza molto la quantità della casa, anche
quando una parte più o meno grande rimanga inutilizzata nella vita quotidiana.
Per questo la casa sarda tradizionale (e gli ibridi attuali) non è mai finita, ma è
pensata in modo che sia aumentabile per giustapposizione di locali e per sviluppo
in altezza. Casa ricca e bella risulta essere principalmente la casa grande. E di
conseguenza non è ritenuta di gran valore una casa piccola.
Il recinto, la corte
Tutta la costruzione dell’habitat regionale è dunque profondamente segnata
dalla bassa densità della presenza umana, da una percepibile forma di
precarietà. Il che non significa naturalmente che gli oggetti edificati non
possiedano, singolarmente o come « tessuti », una riconoscibile compiutezza, e
frequenti espressioni di vera potenza costruttiva.
È però vero, quasi senza eccezioni, che la casa non rende « domestico » il territorio
e che ha un bisogno praticamente imprescindibile di relazioni con altre case, di
costituire un universo integrato ma anche contrapposto allo spazio del lavoro.
Le 120.000 case, che possiamo presumere costituissero a metà Ottocento il
patrimonio abitativo di quella Sardegna « interna » e « popolare » di cui parliamo ,
sono una presenza straordinariamente rada negli spazi dilatati dei saltus regionali.
Perciò ci è parso che occorresse partire, per comprenderne le ragioni, proprio da
questa presa labile dell’abitazione sul territorio. Abitare in Sardegna rappresenta
un punto di equilibrio particolarmente difficile proprio per il fatto di collocarsi nel
contesto della povertà rurale, con una preponderanza dell’autoconsumo
domestico, quindi con fortissimi vincoli all’espansione dell’economia familiare,
all’investimento di quote significative di risorse nella sfera abitativa, per il controllo
e la trasformazione del territorio. Già gli inventari pisani del Trecento ci raccontano
questa architettura popolare senza qualità: « una casa sardesca di 4, 6, 9 travi » 2
recitano gli elenchi fiscali dei puntuali emissari di Pisa, evocando ai nostri occhi
una sequenza indifferenziata di unità cellule misurabili nel più elementare dei
modi, la trave appunto.
La casa « sardesca » continuerà, nei 500 anni che seguono quei censimenti, a
svolgere in un numero illimitato di varianti il tema dell’uso intelligente della scarsità.
In questa varietà si riconoscono non cesure nette, contrapposizioni, bensì
gradualità, equilibri che si spostano in genere per sfumature tra i due grandi poli
della pianura e della montagna, determinando ibridi, compresenze. La casa
consente una lettura dal Vivo dei livelli di equilibrio, della irriducibilità della
casistica a tipi rigidi, della mutevole mescolanza di elementi solo in astratto
ascrivibili al mondo dei pastori o a quello dei contadini. Del resto, gli aspetti estremi
dell’habitat regionale esaltano le ricorrenti coppie di opposte chiavi di lettura:
spazio dell’abitare e spazio del lavoro, come pure autosufficienza/ integrazione (o
autarchia/dipendenza) e ancora individuale/ comunitario, introverso (difensivo)
estroverso (di relazione), urbano/rurale, sino alla classica polarità
maschile/femminile, e via enumerando.
I geografi hanno da tempo elaborato preziose tipizzazioni che riconducono a
categorie e classi questa multiforme varietà di case rurali delle diverse aree
regionali. Tra tutte, basti citare la classica individuazione compiuta 50 anni orsono
da Le Lannou dei « tre grandi tipi di casa rurale E...] la casa montana sviluppata in
altezza E...]- la casa a cortile chiuso nella pianura e negli altopiani coltivati; una
casa molto più semplice [...] a nord ovest dì una linea immaginaria da Cabras al
golfo di Olbia » . O, ancora, la minuziosa casistica elaborata da O. Baldacci
nell’ultimo dopoguerra, che fotografa un attimo prima della più recente «
catastrofe » dell’insediamento la dislocazione e i caratteri della « Casa rurale in
Sardegna ».
L’economia di questi approcci ha piuttosto lasciato in ombra (per equilibrio
espositivo o per scelta di metodo) i caratteri evolutivi del tipo edilizio, le relazioni
tra gli oggetti e la complessa stratificazione della società di cui costituiscono la
proiezione fisica nella dimensione quotidiana, la profondità storica capace di far
luce sugli aspetti della trasformazione dell’abitare.
Rimandando dunque a quelle grandi classificazioni come ad un impianto
generale di lettura, ci si può proporre il compito di scavare intanto nelle pieghe
degli oggetti e delle loro forme di rappresentazione per rintracciarne alcune più
diversificate modalità formative e costitutive.
Il recinto. Una chiave di lettura che attraversa molte forme della casa rurale
regionale (probabilmente la quasi totalità) è la sua relazione col recinto. Il recinto
compare nei documenti giudicali come forma concreta di appropriazione dello
spazio, con riferimento prevalente allo spazio agrario, alla gestione collettiva dei
campi e del pascolo praticata dalla comunità di villaggio. la vidazzone, («
habitacione » nei do-cumenti giudicali del Trecento) che evoca un’immagine così
estesa ed insieme riduttiva appunto dell’abitare: è come se nel villaggio la
specializzazione e differenziazione delle funzioni elementari fosse così poco
evoluta che gli spazi del lavoro quasi coincidono con lo spazio umanizzato e,
appunto, abitato.
Questa idea totalizzante di recinto è in certo modo ribadita se la si esamina al
polo opposto: l’appropriazione più individuale, quella che compie il pastore
recingendo nel saltus il ricovero per sé e per il gregge. Qua possiamo rintracciare
una delle condizioni davvero « originarie » dell’abitare: in un qualche punto il
recinto di pietre si piega, ed enuclea un basamento (circolare per lo più) che si
specializza come riparo, funzionando da supporto ad una copertura leggera. Ma
attenzione: questo archetipo di casa è anzitutto un ricovero di attrezzi, dunque
una specializzazione delle strutture per il lavoro del pastore, nella quale l’abitare è
sostanzialmente una funzione derivata.
La pinnetta pastorale costituisce certamente un polo estremo nella casistica delle
relazioni casa-territorio: il meno specializzato, come già osservato, e anche
probabilmente il più arcaico, se è vero che è l’unico che utilizzi prevalentemente
la linea curva per l’impianto murario dell’abitazione, ovvero la modalità di
edificazione più vicina all’economia del recingere una porzione di suolo col
minimo sforzo. Del resto, la sua parentela con la capanna del villaggio nuragico è
così evidente da suggerire continuità storiche concrete, e non semplici analogie
morfologiche . La conservatività, la resistenza alla trasformazione dell’habitat
‘pastorale è tuttora simboleggiata dall’uso persistente del sistema recintopinnetta,
nonostante i molti piani di sviluppo e razionalizzazione che si sono
proposti di cambiare l’assetto della pastorizia sarda.
La corte. Se il recinto-capanna umanizza e, in qualche modo, urbanizza la
campagna, si può dire che il recinto-corte « ruralizza » il centro abitato. La casa a
corte esprime, nelle sue innumerevoli varianti, la ricerca del livello probabilmente
più differenziato e complesso nella gerarchia dell’abitare che i contesti regionali
abbiano saputo realizzare, compatibilmente con lo status e le risorse dei soggetti
sociali che le costruiscono e le usano.
Quasi niente sembra accomunare più gli imponenti perimetri murati delle grandi
case a corte delle zone cerealicole del Sud con i muretti a secco che delimitano i
recinti pastorali. Eppure alla radice si può ancora riconoscere l’elemento
strutturale dell’architettura popolare delle campagne , la centralità dello spazio
racchiuso, circoscritto dal recinto , che può persino fare a meno dell’edificio senza
cessare di essere una forma di architettura, un modo di abitare il territorio.
Nell’apparente paradosso per cui il cuore della casa è proprio lo spazio vuoto (la
corte, che dà il nome a quella specifica tipologia di casa) sta la spiegazione
dell’altra costante della corte stessa; l’addossarsi dei fabbricati al recinto.
Essenziale è sempre salvaguardare il carattere accorpato, l’unità della corte —
pur nelle sue possibili articolazioni: gli edifici assecondano il recinto anche dove
questo viene piegato a formare, nelle grandi case-fattoria, la linea di separazione
tra la corte 4 civile » e le corti a rustiche ».
Il tabù dell’introspezione, comune a tutti i tipi corrispondenti dell’area
mediterranea. Il recinto è a questo punto un margine murato perfettamente
impenetrabile tra lo svolgersi dei percorsi perimetrali e lo spazio interno. Le relazioni
interno-esterno sono concentrate nell’unico varco di cui è dotata ogni corte e
questo punto singolare (il portale) non a caso si carica delle più diverse valenze
simboliche ed espressive. L’idea e la pratica dell’affaccio, la proiezione dello
spazio familiare verso lo spazio pubblico, resta fondamentalmente estranea alla
cultura della corte; e infatti, non solo il recinto non prevede affacci, ma lo stesso
portale è piuttosto correlato all’atto del passaggio.
Se costituisce una forma di esibizione, il modo è assolutamente indiretto e mediato
dall’architettura.
L’assetto introverso implica dunque che le bucature siano rigorosamente rivolte
all’interno del recinto: sulla corte si aprono, in un’ampia gamma di soluzioni, tutti i
fabbricati che le appartengono, a cominciare da quelli residenziali. Fra questi
ultimi e il cortile chiuso è interposto spesso un loggiato (folla) funzionalmente
rinomato per il suo ruolo di regolatore climatico e morfologicamente così forte da
caratterizzare, con la sua presenza, i fabbricati residenziali della casa a corte.
La corte, in quanto sistema complesso di spazi aperti, coperti, recintati, chiusi, di
attrezzature, di funzioni, può essere descritta a partire da diversi livelli e punti di
vista, e tutti concorrono a metterne a fuoco struttura e significato. Anzitutto in
relazione al ruolo sociale ed economico dei suoi utenti, alla natura e alla
strumentazione del loro rapporto di proprietà e lavoro con la terra e i fattori
produttivi, alla quantità delle derrate trattate e immagazzinate (se strettamente
legate al consumo familiare o destinate allo scambio), alla presenza o assenza di
gioghi di buoi, carri, bestiame, ecc. Inoltre, la corte può essere trattata come
luogo (mutevole eppure costante) della produzione e riproduzione dei rapporti
sociali e familiari-parentali, delle relazioni patrimoniali, della formazione
dell’ambiente di vita in uno con l’organizzarsi dei nuovi nuclei familiari.
Ancora, se ne può parlare come articolazione fisico-funzionale di spazi, fabbricati,
attrezzature — chiave della vita domestica e del suo inestricabile intreccio con
l’attività produttiva col metabolismo a cui sono sottoposti i prodotti della terra e (in
minor misura) dell’allevamento, smistati, immagazzinati, conservati, trasformati, e
naturalmente anche consumati, quando non sono destinati allo scambio. Nella
casistica più diffusa lo spazio aperto tende costantemente a specializzarsi e
dividersi in una area « civile » ed una « rustica ». Tuttavia, sono solo le corti mediograndi
(e quindi, una minoranza di casi) che realizzano questo schema in termini di
separazione fisica, ottenuta spesso con un innesto trasversale di corpi di fabbrica.
Nella gran parte delle case si tratta di un’articolazione non rigida, e comunque
legata ai materiali delle pavimentazioni, o a recinti interni spesso dotati di
labilissima consistenza. Del resto, tutto l’universo della corte sembra svolgersi per
compenetrazione di ambiti integrati e distinti, ciascuno con le sue aree e suoi
propri assi. La sfera dell’accesso, imperniata sul portale, prevede ricoveri, ripari,
fabbricati per il rimessaggio di attrezzi e lo stoccaggio delle derrate secondo un
asse che conduce però direttamente dalla sfera del lavoro a quella abitativa, e
che ha come terminale
il loggiato. Quest’ultimo è a sua volta asse della dimensione domestica, cui si
appoggiano le cellule (domus), i vani residenziali, pochi o molti non importa. Tra
questi, la cucina appare spesso geometricamente periferica ed « estrema »,
proprio perché costituisce un luogo di relazione e scambio tra la sfera abitativa e
quella della lavorazione-trasformazione delle derrate. Sede del metabolismo
domestico, luogo del focolare, la cucina è legata funzionalmente e
simbolicamente alla macina e al forno: per la cucina passa l’asse degli spazi delle
lavorazioni che hanno sede nella corte, e che si proiettano verso le parti « rustiche
» (i ricoveri delle bestie, l’orto...), cui è fisicamente contigua. Infine, da qualche
parte nella corte sta talvolta (spesso) anche il pozzo; così, la casa-fattoria realizza
al massimo grado la sua dimensione di universo integrato e autosufficiente, dove
persino l’acqua, risorsa scarsa per eccellenza, è domesticata e resa disponibile.
L’antica Casa del Campidano
Generalmente le case rurali sarde sono composte da una parte abitativa e dagli
annessi rustici (magazzini, stalle, letamai, cisterne, abbeveratoi, etc.), con marcate
differenziazioni a seconda della posizione sociale e del contesto produttivo di
appartenenza del proprietario. Si diversificano notevolmente anche a seconda
dell’ area geografica (casa campidanese, montana, a palattu).
Sono in pietra o in mattoni crudi, solitamente addossate le une alle altre, spesso
non intonacate all’esterno. I tetti sono di tegole e il soffitto a incannucciata
sorretto da travature di legno, a uno o a due spioventi. I pavimenti sono spesso in
terra battuta o lastricati con grandi pietre piatte. Le pareti interne sono intonacate
con argilla e calce, o con fango e paglia e per lo più dipinte a calce, con colori
tendenti al rosa e al giallo. Presentano, di solito, un solo ingresso con portone di
legno.
Con l’esclusione dell’asinello legato alla mola granaria, cui si destina un vano o un
angolo della casa, in Sardegna difficilmente si hanno casi di coabitazione con
animali da lavoro e da cortile.
Elementi strutturali della casa rurale.
FONDAZIONI
Sono realizzate a secco con ciottoli di fiume di dimensioni
consistenti legati tra loro per mezzo di malta argillosa. Il passaggio dalla
fondazione in pietra al muro in mattone crudo è scandito da un ricorso in
mattoni cotti affiancati e disposti col lato maggiore secondo la lunghezza
della muratura.
MURATURE
Il muro veniva realizzato con l'impiego di mattoni di
"ladiri" disposti a ricorsi successivi in modo tale che i
giunti tra blocco e blocco di un ricorso risultino
sfalsati rispetto a quelli del ricorso successivo ed a
quelli del ricorso precedente; in questo modo si
garantiva il comportamento unitario della muratura. I mattoni venivano
collegati tra loro per mezzo di malta di argilla; gli intonaci invece ve vivano
realizzati con malta di argilla vagliata con interposta paglia di fieno allo
scopo di ottenere un miglior collegamento.
Si otteneva così. una muratura praticamente monolitica in quanto costituita
esclusivamente da materiali tra loro omogenei. Nelle murature, le aperture di
piccole luci venivano risolte con l'ausilio di architravi realizzate con tronchi di
ginepro o di altre essenze resistenti; su di esse riprendeva poi la normale
muratura in mattoni crudi. Le aperture di grande luce venivano invece risolte
con piattabande o archi.
E' stato riscontrato un raro esempio di portale architravato con tronchi di
ginepro .
Quando le condizioni economiche dei proprietari della casa lo
permettevano, nel mezzo dell'apparecchio murario in mattone crudo veniva
usato il mattone cotto per realizzare le parti più sollecitate della muratura
quali cantonali, piedritti, archi e piattabande. Si introduceva così un grave
motivo di discontinuità nella muratura a causa delle differenti caratteristiche
tecniche (resistenza, coefficiente di dilatazione, ecc.) esistenti tra i due tipi di
mattoni; infatti partendo dalle lesioni che puntualmente si verificavano in
questi punti di discontinuità gli eventi esterni intraprendevano la loro opera
disgregatrice dell'edificio.
SOLAI- Non si è riscontrato alcun caso di solai a volta in pietra o in
laterizio cotto. Tutti i solai infatti, realizzati con legname reperibile in zona,
sono costituiti da tronchi opportunamente distanziati aventi funzione
portante e da un tavolato gravante su di essi avente funzione di pavimento.
Solamente verso la metà del XX secolo si sono realizzati, per coprire strutture
murarie in ladiri, solai in cemento armato misto con laterizi e travetti
prefabbricati
TETTI
tetto di questa casa rurale è essenzialmente
costituito da:
a) grossa orditura formata da tronchi di legno di
essenza dura disposti ad intervalli di circa tre metri
e diretti secondo il lato maggiore del locale da
coprire;
b) piccola orditura in travicelli lignei;
c) incannucciata;
d) manto di copertura con coppi alla sarda collegati all'incannucciata con
malta di argilla e paglia o con malta di calce e sabbia.
Il colmo del tetto è quasi sempre realizzato grazie ad un semplice tronco di
ginepro o di altra essenza dura avente particolare conformazione e disposto
in modo tale da svolgere le funzioni di una capriata che sorregga un tetto a
due spioventi.
Per realizzare il colmo del tetto veniva usata anche la capriata palladiana
utilizzando tronchi di legno lavorato; spesso però veniva realizzata secondo
concezione statica errata col "monaco" poggiante sulla "catena" e senza
essere collegato a quest'ultima per mezzo della "staffa
Tutta l'orditura e l'incannucciato, poichè non esiste controsoffittatura, è
visibile dall'interno del vano; ciò riesce a tipizzare maggiormente questo tipo
di abitazione.
INTONACI -Una cosa che viene subito percepita di questo tipo di
abitazione è la incompletezza della superficie esterna intonacata. L'intonaco
esterno infatti veniva usato con una certa parsimonia:
- a scopo protettivo solo nella facciata esposta alla azione disgregatrice dei
venti dominanti,
- a scopo ornamentale nelle facciate fronte strada e in quelle prospicienti il
cortile.
Abbondano i casi di edifici a due piani in cui una facciata è intonacata al
piano terreno, ma non al piano sopraelevato. Dobbiamo ammettere che ciò
riesce a tipizzare ancor più questi edifici. Questi casi da noi riscontrati sono
tanto numerosi da non poter essere spiegati con la tesi semplicistica del
mancato completamento delle finiture della costruzione. Per spiegare questo
fatto bisogna tener presente che la casa in ladiri è una manifestazione di una
realtà ed economia povera. Infatti il lavoro di costruzione della casa rurale
veniva eseguito in economia dal proprietario e dai suoi familiari; da gente
cioè che per improvvisarsi muratore doveva distrarre ore lavorative da quelle
che erano destinate ai suoi impegni abituali (lavori agricoli, cura del
bestiame, ecc.). Ne consegue perciò che fosse ritenuto indispensabile
realizzare l'intonaco del piano terreno di una certa facciata: ciò serviva
infatti, a causa del fatto che l'intonaco su ladiri diventava (per la
omogeneità dei due materiali) una struttura monolitica, a rendere più solido
un muro che doveva sostenere uno o più piani sopraelevati; ne derivava
quindi un miglioramento della statica di tutta la costruzione. Non altrettanto
importante per la statica di tutta la costruzione sarebbe stata la realizzazione
del l'intonaco al piano sopraelevato. E' quindi logico che in un regime di
rigida economia si intonacassero solo le facciate dei piani superiori
particolarmente esposte all'azione disgregatrice dei venti dominanti. Va
sottolineato ulteriormente quanto siano caratteristiche queste case in ladiri
con le pareti esterne non intonacate e con i mattoni crudi in vista. Queste
considerazioni appena esposte sono ampiamente confermate da tanti
esempi di abitazioni ancora visibili .
SERRAMENTIHanno
un ruolo molto importante nella definizione
della tipologia estetica di qualsiasi forma di
"architettura minore". Questa importanza è ancor
più accentuata nella casa rurale campidanese
che, per quanto è risaputo è molto sobria e senza
alcun arricchimento estetico e formale. Sono tutti
realizzati con tavole ben stagionate di legno massiccio, non molto lavorate,e
cori essenze piuttosto resistenti e durature (noce, castagno, ecc.),
attualmente molto costose, ma che prima erano facilmente reperibili nel
mercato sardo anche se non sempre nelle foreste viciniori . Molto
interessante è anche l'armamentario di chiusura tutto realizzato in ferro
forgiato da fabbri ferrai locali che non disdegnavano alcune ricercatezze
stilistiche .
Spesso dal serramento sì riusciva a cogliere il livello economico della famiglia
che abitava in una certa casa. Infatti un passo carrabile chiuso con una

"ecca" (cancello in legno realizzato con stecche di ginepro o di olivastro)
denotava che per, mezzo di esso si accedeva ad una casa di gente in
condizioni economiche piuttosto misere. Al contrario un bel portone con
doghe in legno pregiato e tanto di iniziali scolpite sulla chiave dell'arco de "su
pottabi" , applicate in legno sullo stesso portone, facevano capire
inequivocabilmente che per mezzo di esso si accedesse a "sa prazza" e alla
casa di qualche persona in condizioni economiche piuttosto agiate.
Struttura - Locali - Materiale da costruzione
Le tipiche case rurali abitate da contadini e pastori stanno ormai scomparendo
progressivamente, per dar posto a fabbricati civili e moderni.
La rustica abitazione veniva costruita in mezzo ad un tratto di terreno alquanto
esteso al fine di avere locali vari annessi. Il fabbricato, di aspetto e simmetria
medievale, divideva in due il terreno scelto per l’opera: una parte, e
precisamente quella pertinente il prospetto della casa, prendeva il nome di
“prazza” (piazzale antistante); l’altra retrostante veniva chiamata “cottilla” ossia
cortile. I muri perimetrali si costruivano in pietrame non lavorato con malta di
fango (“ludu nieddu”); per i muri interni venivano adoperati mattoni crudi (“làdri”)
fissati con la stessa malta comune. Il pavimento dei vani era fatto in terra battuta
con uno strato superficiale di malta composta di argilla, paglia e sterco bovino.
L’impasto veniva messo in opera e spalmato a mano libera da una donna
chiamata “sa ludàia”. Tale pavimento, detto “prant’e manu”, veniva rifatto exnovo
o riparato annualmente. La malta per gli intonaci si preparava con l’impiego
di argilla biancastra e paglia (“ludu cun palla”). Per imbiancare le stanze si
adoperava un liquido bianco detto “axrìdda” che si otteneva sciogliendo in
acqua l’argilla biancastra.
Locali Interni
Davanti alla facciata della casa si presentava “Su stàbi” detto anche “Lolla”
(stalla per ricovero bestiame), con due o più archi a tutto sesto oppure a
trabeazione lignea. Alcuni vani avevano l’apertura (porta o finestra) che dava
alla stalla; quello dell’ingresso principale era formato da un ampio andito detto
“saba manna”; a destra di questo, si trovava “sa camber’‘e crocài” (camera da
letto) e alla sinistra “s’apposèntu bellu” (stanza di rispetto). Un’altra stanza, sempre
con ingresso dalla stalla, era adibita per i lavori di tessitura col telaio sardo (“sa
dom’‘e tèssi”). Dietro “sa sàba manna” vi era un piccolo andito detto “su
passarizzu” alla cui sinistra si trovava “sa coscina” (cucina). Il fuoco si faceva al
centro della stanza su uno spazio detto “saforrèdda”. In un piccolo vano, a destra
di “su passarìzzu”, si teneva “sa moba” (la macina sarda); in questo vano vi era
anche la scala d’accesso al piano superiore.

Il piano sopraelevato detto “su sobàriu” o “su stèrridu” era formato da uno o più
vani di cu uno, il centrale che veniva chiamato “su sobàriu mannu”, più ampio
degli altri.
La copertura era costruita in tegole sarde posate su un canniccio sostenuto da
grezzi tronchi d’albero. Al centro della travaturà andava collocato un robusto
tronco arcato sul quale poggiavano gli altri di minore resistenza, questo tronco era
chiamato “su quàddu”.
Locali Annessi all’Abitazione
Nel piazzale anteriore, addossato ad un lato della stalla, vi era il pagliaio
(“s’om’‘e sa pàlla”); inoltre non mancavano il pozzo (“sa funtàna”), il letamaio
(“su muntroàxiu”) e la provvista di legna da ardere (“su cidrùxi”). Il piazzale era
recintato con muri a secco. L’ingresso, con cancello di legno a stecche detto
“gecca de costàllus”, era situato di fronte alla facciata dell’abitazione.
Nel cortile si trovavano i seguenti locali: “su stabèdd’‘e su forru” (loggetta del
forno), “s’om’‘e su pròcu” (porcile), e “s’omu de Is puddas” (pollaio). In un angolo
del cortile, separato dagli altri locali, si teneva “s’accorràzzu”, ossia la latrina.
Quest’ultimo era costruito a mo’ di capanna e cioè con pali piantati per terra e
ricoperti con frasche o erba palustre. I cortili più a centro dell’abitato (“mesu
idda”) erano, come i piazzali antistanti, recintati con muri a secco. Quelli di
periferia invece erano chiusi con siepe viva di fico d’India o di rovo.
Ambienti:
1) “Sa prazza manna” (piazzale antistante)
2) “Su muntroàxiu” (letamaio)
3) “Su cidràxi” (catasta di legna d’ardere)
4) “Sa funtàna” (pozzo)
5) “Su stàbi” (stalla ricovero per il bestiame da lavoro)
6) “S’apposentu bellu” (stanza di rappresentanza o salottino)
7) “Sa saba manna” (sala centrale della casa)
8) “Sa cambera de croccài” (camera da letto)
9) “S’om’‘e tessi” (stanza del telaio)
10) “S’om’‘e su pegus de moba” (locale ricovero dell’asinello)
11) “S’om’‘e sa moba” (stanza della macina sarda e scala di accesso al solaio,
“su sobariu”)
12) “Su passarizzu” (andito)
13) “Sa coxìna” (la cucina con al centro “sa forrèdda”)
14) “Sa cambarèdda” (piccola camera da letto)
15) “S’om’‘e sa palla” (pagliaio)
16) “S’om’‘e is carràdas” (cantina)
17) “5 ‘om’‘e su pani” (dispensa)
18) “Su stabèdd’e suforru” (loggetta del forno)
19) “Su forru” (il forno)
20) “S’om’‘e is puddas” (pollaio)
29
21) “S ‘om’‘e su procu” (porcile)
22) “Intràd’‘e carru” (passo carraio)
23) “S’ottu” (orto o cortile)
24) “S’accorràzzu” (latrina)
Sino a qualche decina d’anni fa molte famiglie contadine abitavano ancora in
vecchie case rurali, alcune delle quali interamente costruite in mattoni crudi
(“!adri’.
Tali fabbricati, che peraltro erano senza fondamenta, avevano il pavimento e
l’intonaco di fango argilloso per cui, ogni anno, era necessario provvedere ai
lavori di restauro e di abbellimento. Il pavimento si screpolava facilmente anche
perché a quei tempi si usavano
“Su ludu friscu” (Restauro e abbellimento annuale della casa) scarpe chiodate
“crapittasfarradas”. Altrettanto avveniva per l’intonaco; bastava toccano
appena con la spalliera di una sedia o rasentarlo con un tavolo perché si disfasse
e cadesse giù a pezzi.
La malta comune usata per la ricostruzione o riparazione del pavimento, era così
composta: “Terra bianca, palla e schivorìa de bòi” (argilla bianca e paglia
impastata con escrementi di animali bovini). L’esecuzione dei lavori di riparazione
o di ricostruzione ex-novo del pavimento, era volgarmente detta “Prant’e manu”,
e ciò per il fatto che la malta veniva stesa e lisciata con il palmo della mano. La
riparazione, invece, dei “murus scroxiobcius” (guasti all’intonaco) era detta in
gergo locale: “arrangidi is’iscòncius”. Una volta terminati i lavori di “Fant’e manu e
Iscòncius”, vi era quello di imbiancare le stanze, lavoro questo detto: “Axriddài”. Il
liquido bianco detto “axrìdda” o “argilla”, si otteneva sciogliendo nell’acqua un
tipo di argilla bianca che si estraeva da cave esistenti alla periferia dell’abitato
dette “i’foràdas de sa terra bianca”. Tale argilla sostituiva la calce.
Questo lavoro di restauro e di abbellimento che prendeva il nome di “hìdufriscu”
veniva eseguito in primavera, alcuni giorni prima della festa in onore di
Sant’Isidoro, patrono dei contadini, oppure alla fine di agosto, prima del due
settembre, ricorrenza di S. Crispo, il Santo festeggiato dai servi agricoli e dalle
domestiche, “tzaraccus e tzaràccas massdias”.
 

Gratis per sempre!

  • > Crea Discussioni e poni quesiti
  • > Trova Consigli e Suggerimenti
  • > Elimina la Pubblicità!
  • > Informarti sulle ultime Novità
Alto